“TRA NAUFRAGIO E SPERANZA” DI DOMENICO PISANA

Dopo “Poesie” (1985-2008), l’antologia che racchiude quasi un quarto di secolo di dedizione al verso, che il poeta, foscolianamente, libera al di là della parola che muore, per farne Parole del Tempo, Domenico Pisana ritorna ai suoi lettori con la raccolta “Tra naufragio e speranza”, Europa Edizioni, Roma 2014,  nella quale, pur prediligendo la linea intimistica (ma non solipsistica!) della preghiera e l’elegia del vivere, rivela qua e là lo slancio e il timbro civile di un verso sempre aperto alla riflessione socio-storica e alla politica della civiltà, che rilancia l’impegno dell’uomo alla “cosa pubblica”, ma con gli occhi fissi al Cielo.

Poesia corposa, di ampia e robusta struttura, interroga e si interroga, sapendo già che mai rivelerà l’irrivelabile e perciò, laddove tenta di lambire la parola alta, la parole dell’Alfa, subito si interra carsicamente nel viaggio estremo e misterioso dell’Omega. Così che questi versi non si librano negli azzurri chagalliani della metafisica e ricadono pesantemente sulla terra a riseminare nuove speranze nel guscio di una parola che non rimuove il sublime, ma lo desidera, lo contempla, lo promette. Da qui, la particolarità della poetica della ricerca, assidua e sistematica, affidata a una teologia, o “onto-teologia”, che promette solo a se stessa, “lamentandosi” di non poter dare garanzie all’uomo, affinché sia l’incertezza a spingerlo sulla strada accidentata e scivolosa della domanda e della risposta.

Tra aforisma e “racconto”, la poesia di Pisana apre celebrando l’apoteosi della luce della Creazione, mentre l’argilla della creazione poetica la ricerca nel libro della Genesi, da lì traendo la rivelazione morale dell’Uomo che genera i simili sulla terra già contaminati dalla macchia d’origine: “temo quest’ebbrezza di luce/ divenuta sorgente di violenza,/ frutto amaro dell’albero dell’Eden”.

Il fuoco rubato agli dèi da Prometeo (qui altra allusione al libro della Genesi), nel raffronto con l’albero del bene e del male profanato da Adamo, sono due momenti che iniziano, già a partire dal mito del fuoco, l’inconclusa e incerta epopea della conoscenza.

Il ravvivante controcanto a questi versi è nel gioco tecnico delle metafore e delle figure di pensiero, nel ricorso all’uso di coppie oppositive “luce-Luci”, delle assonanze e del paradosso ossimorico, che tengono su l’invenzione poetica anche col ricorso a qualche opportuno neologismo.

Tutta la linea della poesia di Domenico Pisana, in buona sostanza, si può sintetizzare nel verso ossimorico del componimento XVI…: “la presenza velata dell’assenza”, nel giuoco del velare e disvelare che confonde luce e buio, inizio e fine, parola e silenzio, lasciando intendere che la conoscenza della verità è ancora oltre il giuoco del velare e disvelare, cioè nella trascendenza o nel miraggio dell’Oltremondo, là dove tutto si ricrea ed è nel nome dell’onnipotenza.

E’ perciò che questa poesia, spesso affidata al fiato lungo dell’ipermetro, ha l’intonazione e la cadenza del monologo che risale i percorsi profondi della interiorità della preghiera, così come prima ha conosciuto i “descensus ad inferos” della “mondità”: perciò “l’intelletto anela alla luce avida di luce” (IV…).

Pisana ama addentrarsi, con furtiva lucidità, nei percorsi intricati e in penombra dell’epopea terrena dell’uomo, già a partire dalla pagina biblica. Ne ama il fascino e l’ambiguità problematica del “racconto” che conduce la creatura umana dai suoi incerti inizi all’incertezza degli epiloghi che lo ritrovano – ahimè!- ancora lungo il viaggio tumultuoso e inconcluso di una ricerca che sempre ricomincia, sognando la pace degli approdi, forse là dove – scrive il poeta – “vorrei tornare a cantare/ parole ricamate di speranza” (IX…)

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