L’AVARO DI MOLIÈRE

E’ nero. Assorbe colori, amore, giovinezza. E’ un amore troppo grande che lo isola, lo rende vivo, gli impedisce di amare qualcun altro. Un amore frivolo, inquietante al tempo stesso. I sentimenti non hanno più nessun valore. Il possedere e l’avere, non l’essere. Il denaro è ciò che lo rende vivo. E’ il suo figlio prediletto.
Arpagone è vecchio, vecchissimo. Troppo vecchio per poter capire che quel morbo che lo allontana dai suoi affetti, dalla sua famiglia è l’avarizia. L’avarizia, il sentimento che rappresenta il tema dominante nell’opera. 

” L’ Avaro ” di Molière, messo in scena dal regista Arturo Cirillo al Teatro Massimo di Cagliari, rappresenta pienamente questo concetto. Il ”vecchio avaro”, Arpagone, è disposto a tutto pur di colmare il suo inesauribile amore per il denaro e per la sua cassetta. Una cassetta per la quale sottrae e rapina la giovinezza ai suoi unici figli, Elisa (interpretata da Antonella Romano) e Cleante (interpretato da Michelangelo Dalisi). La scenografia rispecchia l’animo dell’avaro. Cinque quadri la rappresentano, come per dare l’idea di un lungo corridoio di cui è impossibile costare la fine. I costumi, ispirati al pittore contemporaneo Rothko, danno ai personaggi una maggiore pesantezza. Il loro colore è sfumato, come se il nero dell’animo di Arpagone avesse assorbito pure questo. Dispute, amori intrecciati, tradimenti ed ingiurie. L’unico amore autentico è quello fra l’avaro e la sua cassetta. Il regista, nonché interprete di Arpagone, definisce la commedia ”contemporanea perché dà più valore all’avere che all’essere. Si brama al potere e al denaro”. E in questa avarizia voleva coinvolgere anche noi, la nostra società. Perché in fondo ciascuno di noi ha un po’ di Arpagone nel proprio animo.

 

 

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