LA TIRANNIA DEL CONTENUTO

Qualunque testo, di qualunque linguaggio, ha un destino segnato: la sua faccia significante sarà risucchiata dentro la tirannia del significato. I contenuti assicurano sempre una trattazione facile, digeribile del testo, capovolgendo la gerarchia dei valori cui ogni artista in genere si ispira: prima viene il linguaggio, nella sua totemica unità, e poi – staccata – la storia, il mondo.

Sono passati decenni dallo strutturalismo e ancora ci si inceppa nel rapporto con le cose rappresentate, dimenticando sistematicamente che queste ultime sono – appunto – rappresentate, vengono ad essere cioè quando sono già dentro una trama di significazione.

Prendiamo, ad esempio, un libro. Poniamo un romanzo.

Se l’Autore ha lavorato poco o niente sul “linguaggio”, la sua lettura sarà tutta sbilanciata dalla parte della “storia”. E si avvarrà dei meccanismi di identificazione più vieti. Stop.

E’ solo quando l’Autore opera sul crinale che separa/unisce le parole e le cose che il gioco si fa interessante, avvincente.

40 anni fa si era pronti ad etichettare un’opera come “borghese”, vale a dire reazionaria, vale a dire alienante, vale a dire non-arte, se vi si praticava anche solo un minimo di lavoro sul linguaggio, pretendendo di giudicarla tale perché il dominio della forma caratterizzava la cultura borghese, cui quella “proletaria” doveva contrapporsi centrandosi su un realismo assoluto. Come a dire: le parole (i segni, in genere) devono essere neutri, trasparenti. La retorica socialista, in ambito architettonico come in quello scultoreo, non si discostava più di tanto da quella nazi-fascista. E questo tanto per fare un esempio.

Un’opera come Esercizi di stile di Raymond Queneau, del ’47, deve essere apparsa come un insulto alla religione del contenuto.

Nella sua bella introduzione all’edizione del 1983, Umberto Eco analizza dettagliatamente il lavoro sulle forme retoriche e non che lo scrittore francese tenta nel suo libro più famoso: ciò che però avvince il semiotico sopra ogni altra cosa è il gioco che Queneau organizza sulle infinite possibilità del linguaggio, sulla sua potenza formativa. In altre parole: sul suo essere il terreno nel quale si sperimenta il mondo, lo si vìola, lo si destruttura (il libro, si sa, è un prolungato esperimento di come un banale evento possa essere “raccontato” in novantanove maniere diverse.

Eco, sottolineando come l’ispirazione al libro sia venuta a Queneau dall’ascolto delle sinfonie, ribadisce il concetto che il senso si può creare anche solo a partire dalla costruzione di un dispositivo di attesa, di scarto, di soddisfazione. Come succede regolarmente in musica.

Nel cinema gli autori che hanno lavorato sulla destrutturazione o sulla ricomposizione del linguaggio filmico sono in genere quelli che rischiano più facilmente di toppare al botteghino. Uno di questi è Brian De Palma, di cui si ricorderà Gli intoccabili ma di certo non Femme Fatale, con quella icona della femminilità che è Rebecca Romjin.  Il film è un viaggio all’indietro, la sua rotta è lo sguardo, ovvero il potere fondativo del significante, che fa recedere la storia (pure avvincente) al rango di pretesto narrativo.

La musica è il regno assoluto, incontrastato del significante. Tutto ciò che  accade in essa è sintassi. E il mondo vi penetra, la sostanzia, la rende viva attraverso il gioco delle e sulle forme del linguaggio. Provare per credere: The sky above Braddock, di Mauro Ottolini, è un geniale esempio di come far agire in musica il principio metalinguistico (ovvero: dar forma riconvertendo vecchie forme) sia esilarante, entusiasmante, avvincente. Un secolo di musica shakerata e ricomposta, con evidenti segni di “sutura” lasciati a bella posta.

Geniale!

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