È stata inaugurata a Vittoria la nuova area di Osservazione Breve Intensiva (OBI) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale “Guzzardi”. L’area è stata intitolata alla memoria di Giuseppe Morana, storico dirigente amministrativo dell’ospedale, alla presenza dei familiari e delle autorità locali. La cerimonia ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’ASP di Ragusa, Giuseppe Drago, della […]
LA POESIA “EPISTEMOLOGICA” E DELL’ “OLTRE”
12 Giu 2015 16:41
In questi ultimi tempi mi è capitato sempre di più di leggere e talvolta di presentare raccolte di versi. Alcune, di autori che in passato hanno già dato ottima prova di scrittura poetica come Domenico Pisana; altre, anche di giovani promesse che, magari con minori capacità artistiche, tuttavia sentono il bisogno di affidare alla parola e alla pagina scritta pezzi del loro drammatico, e talora disperato, soliloquio interiore. Sembra che oggi, insomma , si scriva molta poesia.
E allora il critico si deve chiedere perché oggi si sente l’esigenza di scrivere versi. Perché un libro di poesie oggi? La risposta necessita di un’ulteriore domanda preliminare: che cos’è la poesia.
Le definizioni sono di numero infinito, io ne ho scelte alcune che mi sembrano inserirsi bene in questa analisi della poesia di Pisana:
– “Oggi la poesia è un movimento clandestino di resistenza”(Maria Luisa Spaziani);
– “La poesia è sempre più di attualità perché rappresenta il massimo della speranza, dell’anelito
dell’uomo verso il mondo superiore”(Andrea Zanzotto);
– “La poesia ci aiuta a compiere un’esperienza irripetibile di libertà, è finzione e ritmo, ma ci
aiuta a intraprendere un grande viaggio alla ricerca di uno sguardo. Quello sguardo che solo le
donne posseggono e che ci introduce nel punto più segreto del mondo”(Roberto Benigni);
– “Noi leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita” (Citazione dal film “L’attimo fuggente”).
La lettura di una silloge di poesie credo che oggi imponga in primis et ante omnia una riflessione che ci induce a considerare anche il contesto nel quale essa si pone: in un mondo come il nostro, dominato da banalità, da volgarità, da conformismi di ogni genere, da una diffusa e talvolta addirittura ostentata mancanza di valori, come mai riesce ancora ad emergere un indomabile amore per la poesia?
La poesia, infatti, quando è tale per davvero, quando cioè riesce a sgorgare pura e cristallina dall’animo umano, come nel caso di questi versi di Domenico Pisana, si pone oggettivamente in aperto contrasto con tutto ciò che caratterizza il mondo in cui stiamo vivendo. E allora? Io ritengo che proprio in una realtà come quella odierna la poesia trova il suo senso più alto. Infatti, se poesia è “riflessione sentita e consapevole” sulla vita, essa a maggior ragione trova il suo “pretesto” in un mondo nel quale essa non sembra riconoscersi, rintracciando nei temi e nel linguaggio “altro” la sua giustificazione più alta. E del resto è stato proprio un poeta come Leopardi a spiegarci questo arcano nella Ginestra:
…Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido…
In sostanza la poesia non deve (o non dovrebbe) indulgere a facili consensi, non deve (o non dovrebbe) proporsi come vera e propria “verbalizzazione del pensiero dominante”, non deve (o dovrebbe) adoperare il linguaggio della banale quotidianità, ma deve costituire piuttosto uno strumento, anzi il più alto strumento per esprimere la verità (non la realtà!) , che è insita in ciascuno di noi e per promuovere una sympàtheia profonda con il lettore.
Altrimenti sarà “altra cosa”, sarà “denuncia”, “riflessione in versi”, “abbandono lirico”, “elaborazione musicale”, … insomma tutto tranne che poesia. Se ciò che si è appena detto è vero, allora ritengo che oggi ci sia più che mai bisogno di poesia, poiché essa sola è capace di mettere a nudo le radici profonde della nostra esistenza, spesso annegate in una rutilante fantasmagoria di labili parvenze, di pseudo analisi prive di senso, di falsi valori che inaridiscono l’autenticità della nostra vita, impoverendone o distruggendone le radici più profonde.
Ciò detto, veniamo al libro di Pisana, che ho apprezzato molto per la sua struttura , oltre che per i suoi contenuti. Esso consta di 4 parti:
– le prime due costituiscono una sorta di pars destruens;
– le altre due rappresentano, invece, la pars construens.
Ogni parte è introdotta da una epigrafe
I Epigrafe: “La terra irrimediabilmente illuminata risplende di inesorabile sventura” (Horkeimer Adorno Dialettica dell’Illuminismo 1946)
II Epigrafe Ed ora, la notte
“La vita è una lunga battaglia nelle tenebre” (Lucrezio)
III Epigrafe Verso l’Aurora
“Non si può toccare l’alba se non si sono percorsi i sentieri della notte” (Kahlil Gibrain “Sabbia e spuma” 1926)
IV Epigrafe Sognando la speranza
“La speranza è una virtù, una determinazione eroica dell’anima. La più alta forma della speranza è la disperazione vinta” (G. Bernanos)
Le quattro epigrafi, a mio parere, suggeriscono già a priori, il senso complessivo delle quattro micro-sillogi, e la svolta dalla pars destruens a quella construens è determinata dalla lirica che apre la terza silloge:
E ora sogniamo l’aurora. Abbiamo ricominciato a sperare.
Il sole sembra ricercare segnali di attesa.
Sorge in me una nuova inquietudine
e vedo dalla mia finestra
un possibile ritorno del senso smarrito.
A sprazzi, folate d’immagini
si accavallano, per distruggere l’orrore
di ideologie ancora coltivate dalla nostalgia.
Le colombe si muovono nell’ombra,
e una rondine entra nel mio cuore
portando un nuovo avvento
di possibili orizzonti di senso.
Naturalmente la speranza è strettamente connessa con il desiderio di ricominciare daccapo, di azzerare tutte le “amene fole” che hanno caratterizzato la più recente storia dell’uomo per lasciarsi pervadere da una nuova luce, da una luce che è verità assoluta.(Cfr. La seconda lirica della terza micro-silloge):
La mia vita ha nostalgia dell’Arché
Non cerca nudità né conoscenze
Né alberi edenici:
la tentazione è di mangiare il frutto,
di rimanere nudi nell’angoscia,
e di cadere nel vuoto rosso di fuoco.
La vanità non è veltro che salva
Al tuo cospetto si sgretola come sabbia.
La sfida è salire sulla torre,
e arrendersi al limite della ragione.
Voglio essere granellino che cresce nel silenzio,
parte nascosta di un clivo privo d’acqua,
un albero spoglio
che tu possa riempire di frutti.
Le epigrafi, come abbiamo detto in precedenza, sono quattro: Forse ne manca un’altra, da collocare prima, come incipit a tutta la raccolta: “ Kaì ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. – E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”.
E in realtà tutta quanta la silloge mi pare che abbia una forte connotazione giovannea. Una silloge giocata quasi tutta sull’ossimoro luce /buio.
Ma procediamo per gradi e analizziamo adesso i passaggi cruciali della raccolta, enucleandone i contenuti essenziali che si possono così riassumere:
– riflettere criticamente sulla realtà, sul senso dell’esistenza , sul senso della morte;
– prendere coscienza di un naufragio che è storico, filosofico, epistemologico, esistenziale, emozionale.
E si tratta di una presa di coscienza che in qualche modo riappropria l’uomo della sua umanità,che dà alla sua vita un significato e un senso cambiandone il verso, che processa la ragione e lo scientismo come causa prima di una deriva ormai senza speranza, che mette alla sbarra tutte le ideologie novecentesche (cfr. la lirica III della sezione 4 p. 69), che indica nella luce l’elemento salvifico, che affonda lo sguardo nell’immensa solitudine dell’uomo, lasciato solo dal crollo di tutte le pseudo-certezze delle quali fallacemente si era nutrito o da cui era stato sedotto.
E’ Intimismo tutto questo? No ! La riflessione sulla vita e sul significato ultimo dell’esistenza in questa silloge sfugge all’intimismo per diventare exemplum mirabile di una riflessione universale in cui tutti coloro che si accostano, come me, alla poesia di Pisana possono riconoscersi (l’accettazione o il rifiuto della prospettiva proposta dall’autore è poi tutta un’altra cosa).
Naturalmente la poesia di Domenico Pisana, non sarebbe tale se non facesse ricorso all’uso di una lingua “altra”, una lingua adoperata sul versante dell’espressività piuttosto che su quello della comunicazione.
In tal senso la poesia di Domenico Pisana fa largo uso di figure retoriche che però, lungi dall’essere sintomo di esercitazione meramente retorica, sono efficacemente adoperate in chiave poetica per rendere più pregnante il linguaggio.
Così mi piace ricordare soprattutto la figura etimologica o annominazione o paronomasia, che consiste nel ripetere nello stesso verso due o più parole che hanno la stessa base etimologica (es.: “sogno sognato”). Infatti l’uso di questa figura retorica, anziché collocarsi esclusivamente sul versante dell’espressività come frutto di mera iterazione , serve mirabilmente a sottolineare il carattere fortemente connotativo del linguaggio dell’autore. Inoltre, è notevole un uso frequentissimo dell’enjambement. Il Ritmo così spesso diviene “franto” , e tuttavia mai prosastico, anche se si avvale a volte di una struttura sintattica articolata (es. il periodo ipotetico). Ma il rischio di pervenire ad un genere di poesia, fondata sul ragionamento, è superato ampiamente dall’uso di un lessico fortemente immaginifico ed evocativo.
In conclusione mi sento di dire che la poesia di Domenico Pisana è essenzialmente “filosofica” , nel senso ovviamente più positivo possibile, o sarebbe meglio dire “epistemologica”, nella misura in cui indaga con spirito demistificante e con accorato desiderio di trovare “un orizzonte di senso” sulla vita e sulla morte, sulla storia e sul destino dell’uomo, alla ricerca di una risposta che non è immanente al mondo , ma va ricercata in una dimensione “oltre”, e più precisamente nella figura di Gesù di Nazareth , la sola capace di fornire all’uomo una vera ed autentica prospettiva di luce e quindi di verità. Tale visione escatologica, tuttavia, non impedisce all’autore di indagare con profonda e lucida analisi sul destino disperato dell’uomo di oggi:
Nell’oscurità vita e morte hanno perso identità
una coltre di contaminazione s’è stesa lungo l’esistenza
il senso e il valore hanno voltato pagina
la fruizione dell’attimo, dell’immediato
s’è fatta spazio come possibilità di sopravvivenza al naufragio.
Inchino il capo e osservo il bruciare degli istanti
Volti che parlano senza parlare e vivono senza vivere
Cuori che giocano alla felicità
Mani che si perdono nella penombra:
il nuovo tempo della frustrazione consacra l’insoddisfazione
di chi si sente soddisfatto del nulla, innalzato a tutto.
Nessuno sfugge al bisogno di viverlo!
Ma torniamo al significato complessivo della raccolta. Ad una lettura superficiale si potrebbe pervenire alla conclusione che la silloge nella sua complessità veicola un messaggio disperato. Ma non è affatto vero, anzi! La silloge si apre, invece, come ho detto in precedenza, alla speranza, anzi all’unica speranza, che è speranza di Lui, accompagnata dal canto dell’amore.
Una poesia quindi, quella di Domenico Pisana, che ci indica un percorso salvifico, un vero e proprio Itinerarium in Deum, senza il quale tutto è vanità.
E mi piace chiudere queste mie “poche e storte sillabe” con la lirica XXVII della quarta micro –silloge , perché forse i poeti bisogna farli parlare più che commentarli:
Dove le ferite attendono mani di perdono
la luna è pronta a rischiarare la ragione,
il cuore riprende a battere d’amore
le forze a reagire all’impotenza,
si fa strada il canto del ritorno.
Dove si piega il ferro divorato dalla ruggine
la pace diventa balsamo di vita,
la mente brucia i ricordi della morte,
non è più oro ciò che è definito,
si fa strada il canto dell’aurora.
Dove il sogno di Prometeo svanisce nel nulla
l’umiltà è la forza dell’uomo in solitudine,
l’anima si arrende al suo Principio
le parole si vestono di trascendenza,
si fa strada il canto di speranza.
Dove la notte lascia spazio al giorno
l’aurora si colora d’albe e di riflessi,
il Verbo ci sveste della nostra onnipotenza
il sole illumina l’imperfezione dei pensieri,
si fa strada il canto dell’amore.
Gaetano De Bernardis[1]
[1] Gaetano DE BERNARDIS, scrittore, grammatico e latinista, è autore di testi di grammatica e di letteratura per le scuole superiori. Ha vissuto quarant’ anni nelle aule, trentasei dei quali al Liceo Basile di Brancaccio. La sua è stata una scelta civile. Ha Insegnato in un quartiere che gli ha richiesto sicuramente un impegno maggiore. Un momento caldo fu in occasione degli attentati contro Falcone e Borsellino. De Bernardis organizzò, insieme a pochi altri colleghi, la prima vera manifestazione contro la mafia a Brancaccio. Gli chiusero le imposte in faccia, bruciarono pure l’ aula magna.
Tra le sue pubblicazioni si segnalano, Studiamo il latino. Grammatica e sintassi latina (Palumbo, 2010); Roma antica. Letteratura e dintorni (Palumbo, 2009); Forum Romanum. Per le scuole superiori (Palumbo,2012); Profili di letteratura latina-Laboratorio di traduzione e interpretazione. Storia e antologia della letteratura latina. Per le Scuole superiori(2012); Cleo. Corso di latino essenziale e officina del traduttore. Per i Licei e gli Istituti magistrali. Sintassi(2008); I classici di Roma antica(2002); La letteratura di Roma antica. Storia e Antologia della Letteratura latina(1996).
© Riproduzione riservata