UNA NUOVA IDENTITA’ PER LA SINISTRA

 

Ho scritto questa riflessione alla fine del 2001 quando ancora non c’era il PD (Partito Democratico) ma c’era il DS (Democratici di Sinistra) e oggi, 20.02.2017,dopo l’assemblea del PD e la quasi scura scissione la ripropongo.

La sinistra è in crisi. Il DS è in crisi, non c’è una identità definita e condivisa. Prevale la lotta personale sull’elaborazione politica. Il DS si avvia allo scioglimento. Sono frasi che si sentono dire. E sono frasi su cui rifletto per capire.

La lotta personale c’è sempre stata e sempre ci sarà ed è giusto che così sia in quanto l’ambizione e l’aggressività sono componenti positive della natura umana grazie alle quali c’è ricerca e dinamicità. Il pericolo nasce quando diventa preminente sull’elaborazione e sull’attività politica e quindi sterile e suicida. Perché questa decadenza? Il prevalere dei personalismi è una conseguenza e non una causa. Invece di cercare i “colpevoli”, che tanto ci saranno sempre, ricerchiamo le “cause”, che una volta rimosse non ci saranno più.

Perché il vecchio PCI riscuoteva vasti consensi? C’era chi elaborava e scriveva teorie che non si capivano (vedi “Critica Marxista” ma anche “Rinascita”) e c’era chi amalgamava teorie e bisogni dei lavoratori in piattaforme e in obiettivi chiari e concreti da portare a casa (la CGIL cinghia di trasmissione del Partito).

Erano obiettivi primari ed era facile trasformarli in punti di piattaforma. Per chi aveva fame ed era disoccupato, era facile dire: “pane e lavoro”. Per chi non aveva i soldi per le medicine, era facile dire: “medicine gratuite” (e anche gli industriali ci hanno avuto il loro tornaconto). Per chi vedeva i propri figli buttati fuori dalla scuola, era facile dire: “l’istruzione per tutti” (e le case editrici e non solo loro ci hanno fatto il loro guadagno). Ed erano obiettivi che facevano sognare un mondo giusto, un mondo felice… e tanti sognatori ci siamo andati appresso come i topi dietro al flauto della favola.

Nel vecchio PCI del centralismo democratico erano pienamente attivi i quattro fattori indispensabili per far funzionare bene una organizzazione, un sistema (o un’azienda, come la si chiami non ha importanza) che fornisce servizi quale appunto è un partito politico. 1) Responsabilità della Direzione, leadership forte, autorevole e ben indirizzata; 2) Personale e risorse (basta ricordare l’importanza che si dava alla politica dei quadri e alla formazione e all’orientamento politico, …); 3) Sistema qualità ovvero organizzazione (basta ricordare che il responsabile dell’organizzazione era, dopo il segretario politico, il componente più autorevole della segreteria; 4) Interfaccia col cliente: il cliente era ben definito (la classe operaia) e tutta (o quasi) l’azione politica era dedicata a raccogliere il consenso del cliente e si teorizzava “la centralità della fabbrica”. Oggi facciamo acqua su tutti e quattro i punti. E però se, nel vecchio PCI, la tattica, la mission, il management erano corretti, la strategia, la vision sono risultati perdenti.

Era infantile pensare che saremmo riusciti a cancellare il capitalismo mostro cattivo e poi avremmo creato il paradiso terreste e tutti saremmo vissuti felici e contenti. Il capitalismo proprio e in quanto evento storico prima o poi dovrà, come dice lo storico Francesco Renda, finire. Chi sarà a farlo finire e come, non è dato sapere, né val la pena esercitarsi su tale questione. Cessiamo allora di essere infantili e prendiamo atto che il mondo è stato, è e sarà fatto di forti e di deboli e il far politica, ieri oggi e domani, è il governo del conflitto degli interessi contrastanti degli uni e degli altri. Se ieri il far politica è stato epico ed eroico, oggi è diverso e più complesso e necessita di non meno coraggio e non solo intellettuale, basta pensare alla ex Iugoslavia e alla Palestina.

Cominciamo dall’interfaccia col cliente che è centrale rispetto agli altri tre fattori di buona gestione. Chi è il nostro cliente? Al consenso di chi ci riferiamo per avere la misura della giustezza del nostro agire politico?

Se il forte è chi trova, da se stesso, le soluzioni buone per lui, il debole è chi, in una determinata situazione, ha bisogno dell’aiuto degli altri e ricerca soluzioni che avvantaggiano tutti i deboli e non lui solo a scapito degli altri. Debole è chi lotta per avere più diritti ma per restare debole, sempre! Si chiamavano gli operai alla lotta non per farli diventare “padroni” ma per essere operai con più diritti e più dignità. Il debole è chi ha bisogno della politica per risolvere i suoi problemi. E quindi essere di sinistra significa fare la politica dei deboli. Politica di sinistra è quella che avvantaggia tutti i deboli e non uno solo o un gruppo (il corporativismo tanto combattuto dal PCI).

Noi siamo deboli e resteremo deboli! Riconosciamo la legittimità ai forti di esistere (anche perché loro la legittimità se la pigliamo anche senza il nostro riconoscimento) e riconosciamo degna di cittadinanza l’aspirazione di singoli deboli a diventare forti. Ne consegue che il nostro problema non consiste nell’abbattere i potenti (ricordo un manifesto sovietico incorniciato e appeso, ancora oggi, nel mio studio in cui è raffigurato Lenin che con una scopa spazza via dal globo terrestre i potenti: imperatori, re, banchieri, …) ma nell’affermare e difendere la nostra legittimità da cui scaturiranno quelli che noi riterremo essere i nostri diritti da affermare e difendere.

Attenzione! La separazione tra forti e deboli non è netta e statica! Ciascuno può essere forte e debole in relazione alla situazione. Il piccolo imprenditore è forte in relazione ai dipendenti ma è debole in relazione ai grandi industriali. La FIAT è forte in relazione all’Italia ma è debole in relazione alle multinazionali della finanza. La stessa Italia è forte in relazione agli italiani ma è debole in relazione agli altri Paesi e alle multinazionali della finanza. Non è più lotta di “trincea”: noi da questa parte e il nemico dall’altra parte e si combatte per l’annientamento del nemico. Noi e i nostri avversari (e non nemici) siamo dentro la stessa barca. È questa la prima grossa complessità su cui non siamo stati abituati a ragionare. Su questi concetti il più lucido, il più laico di tutti, forse l’unico, è stato Giacomo Leopardi ne “La ginestra o il fiore del deserto”.

Quale politica? Forti e deboli stiamo dentro la stessa barca e il forte e il debole sono dentro ognuno di noi e allora sgomitiamo pure tra di noi ma perseguiamo l’interesse comune di indirizzare la barca dove il mare è più sereno e più ricco di pesce. Il problema non è essere a favore dei deboli contro i forti ma elaborare politiche che portino vantaggi ai deboli anche se ne portano pure ai forti. E, prima di adottare le politiche, contrattiamo la percentuale dei vantaggi che ci toccano. E, comunque, le politiche e le scelte vanno adottate pur sapendo che mai andrà esattamente così come previsto e voluto. E poi, a cose fatte, si verifichi se e in che modo e in che misura le cose sono andate come previsto e pianificato. E si riparte d’accapo. Pescare più pesci è incontrovertibilmente meglio che pescarne pochi e se non possiamo accettare che della pesca grassa si avvantaggino solo i forti, non possiamo altresì rifiutarci di andare verso il mare pescoso per paura che poi i pesci se li pappano solo i forti. Se non si capisce questo si perde il consenso sia dell’imprenditore sia dell’operaio.

Quali sono le cose che costituiscono vantaggi per i deboli? È questa la seconda grossa complessità: definire ciò che, per i deboli e in quanto deboli, è da ritenere facente parte dei diritti da affermare, da conquistare e da difendere. Attenzione! Volutamente non uso il verbo rivendicare perché può essere associato a elemosinare e non abbiamo da chiedere elemosine a nessuno ma abbiamo da convincerci chiaramente di ciò che vogliamo in quanto deboli. Dobbiamo cioè definire e affermare una nostra forte identità di deboli e in quanto deboli. Sbavare di fronte ai lussi dei ricchi o elemosinare l’invito al salotto del potente e dall’altra scongiurare negare schiacciare i diseredati come anche provare pietà per loro significa non avere identità: una volta si diceva essere piccolo-borghesi.

 Oggi il figlio o il nipote di quello a cui si diceva “pane e lavoro” è diplomato e anche laureato, ha il superfluo. . . ma è disoccupato. Cosa gli possiamo dire?! I bisogni non sono più quelli primari la cui percezione è immediata ma: “quale è la sanità che dà veramente la salute?”; “quale è la scuola per cui val la pena stare cinque ore al giorno dentro quattro mura nella fascia d’età in cui viceversa è più vivo l’impulso allo spazio libero e al movimento?”; “quale è la vita per cui vale la pena viverla?” Dobbiamo riuscire a tradurre queste domande in obiettivi di piattaforma chiari e concreti per cui i deboli li vivano come propri e importanti al punto da farne oggetto di lotta. Con la politica decidiamo poi, di volta in volta a seconda delle situazioni e delle circostanze,  ciò che possiamo portarci a casa ora e subito per poi, alla successiva “vertenza”, portarci a casa un altro pezzetto di “felicità”. Se non saremo capaci di fare ciò perderemo il riferimento vitale per chi e per cosa si fa politica, la nostra azione politica diventa solo lotta di “gruppi o bande”, faremo flop e la situazione degraderà come nella Roma tardo-imperiale in cui il popolo chiedeva “panem et circensis” (pane e giochi del circo). Ci siamo già o quasi!

La politica di destra, la politica dei forti, di quella parte dello schieramento politico che beneficia dello status quo, è più semplice: non si pone il problema di modificare la realtà ma di trarre vantaggi da qualsiasi situazione. È quella che dice: “La sanità, la scuola vanno male, è difficile riformarle, forse impossibile: invece di imbarcarmi in una operazione disperata e dall’esito incerto ricerco le possibilità di trarne vantaggio per me stesso o per il gruppo cui appartengo. Attenzione! La politica di destra può riscuotere facilmente vasti consensi di massa specie in periodi di difficoltà e di incertezza. Il ragionamento è del tipo: “In una situazione in cui ognuno pensa ai fatti suoi bisogna che io penso ai miei. Tra chi dice di aggiustare il mondo senza esserne capace e chi invece dimostra di sapersi fare gli affari suoi, io do il voto al secondo perché, nell’arraffa arraffa generale, è più probabile che qualcosa riesca ad arraffare pure io. Se poi il politico di destra è anche ladro, non guasta, perché lo troverò più comprensivo quando avrò bisogno di arraffare qualcosa o di aggirare questa o quella norma. E ancorché lui ruba il grosso e a me lascia le briciole, per me va bene lo stesso perché io in fondo non ho il suo coraggio, la sua abilità, la sua spregiudicatezza e mi accontento di poco. Lui è più forte e ha diritto di arraffare più di me. È legge di natura che il più forte prevalga sul più debole. E ci trova soddisfazione anche il vile invidioso (vorrebbe rubare ma ha paura o ne è incapace) perché può sentirsi eroe gridando: sono tutti uguali e sono tutti ladri e la politica fa schifo.

In sintesi. Il mondo va come va: opero per trarne il mio tornaconto e per il resto va come deve andare (politica di destra); oppure opero per aggiustare il corso degli eventi perché tutti, chi più chi meno, ne abbiano un vantaggio (politica di sinistra). Posso anche utilizzare la distinzione, scherzosa ma non vacua, di Giovanni Sartori, secondo la quale la sinistra è la componente etica della politica, nel senso che “sinistra è fare il bene degli altri, destra il bene per se stessi, la sinistra è Kant, la destra è Bentham”, con l’aggiunta che la prima è “altruista, ma pericolosa” e la seconda “egoista, ma meno truffaldina” e la conclusione che la sinistra va “mantenuta come istanza etica” e la destra “rispettata”, in modo che il meglio che ci possiamo aspettare è che tra le due “si ricominci a litigare pulitamente”.  

Ne consegue che per la sinistra fare politica è più complicato e più difficile perché deve districare la complessità del capire chi e cosa difendere e come. Un esempio: la sanità. Gli utenti, gli ammalati, i poveri sono i deboli, e i medici sono i nemici?! Ma i deboli da difendere in modo collettivo non sono, per ciò stesso, automaticamente “i buoni” che assumono comportamenti responsabili: gli appassionati di cinema ricorderanno i film “Viridiana” di Louis Bunuel e “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola. Ma i medici sono gli operatori grazie a cui ci è garantita la salute e per fare ciò bisogna che stiano bene e siano gratificati dal loro lavoro e però sono anche stronzi perché quelli bravi pensano a fare i soldi e vogliono guadagnare sia dentro sia fuori la struttura sanitaria pubblica e quelli scarsi fanno poco e male. Oppure i nemici sono il Direttore generale, la Regione e lo Stato che invece sono quelli grazie alla cui azione si può garantire la salute ai deboli?! Oppure i nemici sono i privati che arraffano soldi, hanno scarsa professionalità, vendono fumo e non si imbarcano nella medicina difficile?! Ma i privati non sono solo operatori economici ma anche operatori politici e riscuotono consensi: la gente non solo ci va spontaneamente ma ne parla anche bene! E dentro i privati ci lavorano, e bene, tanti medici e tanti operatori sanitari che, magari, non sono pagati tanto bene.

Allora forse conviene abbandonare l’idea di lotta tra opposti “nemici di classe” e pensare a un insieme di attori dentro una stessa barca ognuno dei quali deve poter trovare, nella navigazione, il proprio tornaconto per cui decide che vale la pena di remare a favore e al tempo stesso deve capire che il suo tornaconto non può mortificare qualcuno degli altri attori perché allora sarà quell’altro a remare contro.

E conviene abbandonare l’idea di riforme studiate a tavolino, belle e perfette, e poi respinte da tutti o quasi. Ne è un loquace esempio la scuola, ma credo anche la sanità. Ha fatto flop Luigi Berlinguer e prima di lui tutti quelli che hanno “disegnato” bei pezzi di scuola che mai nessuno ha applicato: vedi organi collegiali, programmi per la scuola media del 1977,… E sta facendo flop la Moratti e farà flop chiunque “sa quale è la scuola buona” e pretende di “dettarla” a insegnanti, studenti e genitori. Allora perché non facciamo la prova di vedere se saremo più fortunati invertendo il modo di far politica: invece di far la riforma e di adattare gli uomini e le situazioni ad essa perché non adattiamo la riforma agli uomini e alle situazioni innescando un processo di miglioramento continuo?! Facciamo come fece Kant nella “Critica della ragion pura”: “Qui è proprio come la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri ruotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri”. Si dice di voler fare le riforme per migliorare le prestazioni dei servizi. Invertiamo il processo. Partiamo dalla valutazione delle prestazioni dei servizi, indichiamo gli indici di miglioramento e apportiamo le modifiche istituzionali che favoriscano il miglioramento. Si ottengono due vantaggi: a) si ha la misura della efficacia delle riforme; b) il miglioramento delle prestazioni è valutabile da parte degli utenti. È difficile, anche tra gli addetti ai lavori, capire se, per la riforma dei cicli scolastici, è meglio il 3+7+5 di Berlinguer (Luigi) o il 3+5+3+5 della Moratti o il 2+5+5+3 che propongono altri (e che piace a me). Tutti invece comprendiamo che è un bene se si avviano processi tendenti a ridurre la percentuale degli alunni che, pur formalmente promossi, hanno profittato poco o niente dello studio. Ma è lavoro diverso dal “disegnare” riforme armoniose quanto inutili, occorre affondare le mani nella realtà, studiarla, capirla, amarla in tutte le sue contraddizioni e ogni sua componente ha le sue.

Gli insegnanti fanno scuola come sanno fare. E va bene così perché né la carota né il bastone potranno cambiare il loro modo di lavorare. Al tempo stesso soffrono perché gli alunni sono sempre più svogliati e lavorare in classe diventa sempre più pesante. Allora: misuriamo quanti sono gli alunni che non profittano e disturbano (da una mia stima oltre il 50%, ma va bene anche il 50%) e diamoci l’obiettivo di farli diventare il 40% e poi il 30%,… e al tempo stesso il lavoro degli insegnanti diventa più gratificante. In che modo? Non credo che qualcuno abbia la ricetta in tasca perché tutti quelli che hanno ritenuto di averla hanno fatto flop. Gli unici a poter trovare il modo sono le scuole e gli insegnanti: è la grande intuizione dell’autonomia scolastica. Purché vengano aiutati e non colpevolizzati. E in questo ha sbagliato Luigi Berlinguer: il “concorsone” non aiutava gli insegnanti; il corso di formazione per i Capi d’istituto fu un gran fallimento; la valutazione dei Capi d’istituto un bluff. Solo se si riesce a pensare e costruire aiuti veri e credibili si può pensare di portarsi dietro gli insegnanti e le scuole. Per un insegnante vale la pena fare un giorno di sciopero per avere cento mila lire lorde in più nella busta paga? Credo proprio di no! Val la pena fare un giorno di sciopero per iniziare un percorso concreto e credibile di miglioramento delle condizioni di lavoro dentro le scuole? Credo proprio di sì! Ma questo i dirigenti sindacali non lo capiscono.

Gli studenti si annoiano da morire a scuola, si sentono assolutamente non considerati persone,… Allora: cerchiamo di misurare la noia e la non considerazione e cerchiamo di ridurle. Ma parlo di considerazione vera non dell’introdurre uno studente in più nel Consiglio della scuola che già è un organismo che non conta niente e dove gli studenti contano ancora meno. L’insegnante spiega i contenuti del libro di testo, l’alunno ascolta, studia sul libro e ripete. Quanto spazio gli si dà per esprimersi e per confrontarsi con gli altri del presente e del passato e quindi crescere? Che cavolo di slogan è: “No alla privatizzazione della scuola” in bocca a uno studente. Non è uno slogan suo: la privatizzazione, ammesso che qualcuno l’abbia in testa, avverrà tra decenni; lui tra qualche anno è fuori dalla scuola. Lo slogan per lui è: “No alle tante stupidaggini, noiose e inutili, che ci costringete a studiare”. Ma è uno slogan difficile anche per lo studente! Far finta di studiare le tante stupidaggini noiose e inutili può risultargli comodo in quanto gli consente di crogiolarsi nel limbo del dolce non far niente avvolto dalla bambagia fatta di case ben riscaldate, di notti passate al pub e al mare, del virtuale della TV e dello spinello, del concreto consumismo garantito. Studiare in modo vero e rigoroso lo mette in contatto con la cultura, gli sbatte la realtà in faccia, gli fa acquisire strumenti di interpretazione, lo arricchisce… ma gli richiede impegno e lo mette in crisi!

I genitori deboli si vedono arrivare i figli a diciotto anni senza arte né parte e, cosa ancora più grave anzi gravissima, avendo imparato che si vive lo stesso senza lavoro e che basta farsi chiudere dentro un appartamento a fare i buffoni per avere successo. Come fanno a esser sereni e a mandare con fiducia i figli a scuola?! Il genitore debole per acquistare serenità deve poter sapere, guardando suo figlio, che da qualche parte troverà un lavoro dignitoso, da qualche parte si inserirà e che la scuola lo sta preparando a questo. Se poi è bravo, se poi è fortunato, potrà trovare un lavoro di alta professionalità… questo non dispiace anzi fa piacere, ma non è, né può essere, l’obiettivo dei genitori deboli. Allora: concluso l’obbligo formativo o gli studi superiori tutti i giovani devono andare a lavorare. Punto: con paga o con sotto paga; alle dipendenze o in proprio; sotto padrone o sotto lo Stato; nel servizio militare o nel servizio civile (meglio); a buttare bombe ai poveri della Terra (assolutamente no!) o a portare loro il “pane”. Nel frattempo, durante gli anni di scuola, esperienze di lavoro sistematiche e generalizzate aiuterebbero i giovani e per lo studio e per la vita.

In conclusione. Alla identità dei “veterocomunisti” consistente nel “dopo la rivoluzione vi faremo vedere come siamo bravi a far le cose BUONE e GIUSTE” credo che la sinistra debba sostituire una nuova identità del tipo: “ora e subito, all’opposizione o al governo (meglio) vi facciamo vedere come siamo bravi a far le cose un pò più buone e un pò più giuste e per cui vale la pena di vivere in questo mondo nonostante i furbi, i potenti e gli stronzi”. Emblematico il film “Grazie Signora Thacher”: il cui tema è: “Ci chiudete le miniere, ci licenziate,… ma noi ce la godiamo lo stesso con la nostra banda musicale e ci portiamo il trofeo a casa”. Ma anche i film “Full monthy” (che però lascia l’amaro in bocca) e il francese “Marius e Janette”. Non c’è lo scontro inconciliabile (spesso col morto) né la pretesa di costruire un mondo tutto nuovo che caratterizzavano i vecchi film di sinistra ma c’è la voglia di godersi lo stesso la vita nonostante il permanere delle ingiustizie.

Ragusa, 28 dicembre 2001      

Nella tessera del 2002 del DS (ultima mia tessera del Partito) è riportata la frase di Edgar Morin: La rinuncia al migliore dei mondi non è la rinuncia ad un mondo migliore. È bello constatare che anche altri la pensano allo stesso modo! (dicembre 2002)

                                                                   

                                                                                                                                      Ciccio Schembari

 

Complimenti per il testo anticipativo e profetico. Grazie molte per l’attenzione. Se (Sinistra europea) italiana (giugno 2007)

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it