VIOLENZA E FEMMINICIDIO

Quando le emozioni irrompono nella mente senza la mediazione del pensiero si traducono in violenza. È quello che accade nei tanti episodi di femminicidio di cui di recente sentiamo parlare in TV, episodi che stordiscono, allarmano e sorprendono, ma che, a mio parere, vedremo drammaticamente aumentare, a meno che non si intervenga in modo radicale e profondo su alcuni dei fattori psicosociali che li determinano. Come detto prima le emozioni che irrompono nella coscienza senza la mediazione del pensiero diventano violenza, ma il pensiero è frutto della relazione aspetto di cui la nostra società è carente. I giovani crescono senza grosse interventi educativi. La famiglia nutre in senso materiale, ma non in senso spirituale e affettivo e questo, benché detto e ripetuto, continua ad essere il nocciolo della questione. Tra tutte, una carenza profonda maturata dai giovani in famiglia è la non capacità a fare i conti con la frustrazione, a guardarla in faccia a comprenderla e infine ad accettarla. Di fronte ad un’esperienza frustrante la mente di un giovane ragazzo si scompensa, entra in confusione quindi prova panico, avverte il diniego come una minaccia ovvero pericolo da rimuovere, da cui l’attacco aggressivo o violenza. La forza fisica, presente in un uomo in misura maggiore che nelle donne, diventa l’elemento con cui prevaricare su chi ha osato dire di no, infrangere un legame sentimentale, tradire.

In questi soggetti, una generica bassa tolleranza alla frustrazione si combina ad una particolare esperienza d’infanzia caratterizzata da due elementi determinanti: un ambiente familiare fortemente aggressivo, dove cioè c’era un’elevata aggressività fisica o verbale, e la presenza di una  figura materna incapace di amare, dalla quale percepirono appunto di non essere amati e accettati per quello che erano. Ne derivò una profonda ferita narcisistica e un dolore intollerabile che li portò a prendere l’inconsapevole decisione che mai più avrebbero permesso a qualcuno di causare loro un simile dolore. Questo spiega la difficoltà di questi soggetti a tollerare la perdita dell’altro, che rappresenta il sostituto affettivo di una figura materna che è stata fonte di sofferenza e frustrazione. Rimuovere l’oggetto del dolore diventa quasi necessità, l’atto distruttivo viene raggiunto come degenerazione di uno sconfinato sentimento di rabbia che non si è in grado di padroneggiare e quindi di esprimere in modo funzionale. 

Dott.ssa Sabrina D’Amanti psicologa e psicoterapeuta

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Studio di psicoterapia a Vittoria

 

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