LA MASSERIA E LA LAVORAZIONE DEL LATTE NEL RAGUSANO

Andando in giro per la campagna ragusana (e anche modicana) riscontriamo tre tipologie di massarie (fattorie). Quella nobiliare con le cammiri (stanze) al primo piano o con la palazzina separata o, in certi casi, con superbe ville, dove il nobile alloggiava con la famiglia durante la villeggiatura estiva, mentre nte dammusi (al pianterreno) abitava la famiglia del massaro fittavolo con davanti u bagghiu (ampio cortile dove si svolgeva tutta l’attività esterna della masseria, l’aia) attorniato dalla casa abitara (casa d’abitare), dal maizzè (magazzino per le provviste), dalle stalle (u stalluni per le mucche; stalle per cavalle e asine; u stagghiaturi per il puledri stagghiati, svezzati; stalletta per i vitellini lattanti; u zacnu o purcaru per i maiali; u jaddinaru per le galline; a mannira per le pecore; a cunigghera per i conigli; u palummaru per le colombe o anche più semplicemente dei buchi nella parte alta della facciata delle stalle dove i piccioni facevano la cova), dalla casa o frienu (il fienile), dalla pagghialora (il pagliaio dove dormivano i braccianti agricoli ovviamente senza pigiama ne lenzuola, vestiti com’erano in mezzo alla paglia togliendosi solo le scarpe), e chiuso da ampio portone. Quella dei massari proprietari anch’essa col bagghiu chiuso ma priva delle cammiri al piano superiore. Quella dei massari scarsi era senza bagghiu chiuso e con un numero ridotto di locali per l’abitazione e per l’attività. Momento magico della giornata era quando, all’imbrunire entrando nto bagghiu al rientro dai campi, si sentiva l’odore del fumo del focolare misto al profumo della minestra di fave.
La casa abitara o casa ri mannira nel modicano, locale di centrale importanza, dove si svolgeva tutta l’attività interna della masseria conteneva: a tuccena, una lastra di calcare orizzontale ad altezza ade-guata e sostenuta da due lastre verticali con sopra a tannura, tre blocchi di calcare a ferro di cavallo con al centro u tribuolu in ferro dove si appoggiava la pentola e, a  lato, u cufunettu per la carbonella per cucinare a fuoco lento in tegami di argilla, il sugo, gli stufati, verdure in umido; il forno, l’angolo per la lavorazione del latte e il focolare per cuocere la ricotta. Lavorazione del latte attività importante se non principe dei massari ragusani e modicani. In un solo angolo della casa abitara si produceva il cacioca-vallo una delle tre ricchezze assieme a frumento e carne. Il fitto delle tenute veniva, infatti, corrisposto con questi prodotti in relazione alla produttività del suolo. Mediamente era di due quintali e una salma per anno per ogni salma di terreno preso in affitto e precisamente: un quintale di carne, uno di caciocavallo e una salma di frumento. Per la traduzione in denaro si faceva riferimento al listino dei prezzi medi nelle varie domeniche dell’anno pubblicato dalla Camera di Commercio.

Le fasi della lavorazione del latte.

La cagliata. Si versava il latte, man mano che veniva munto, nella tina (1) avendo cura di colarlo co culaturi (3) sorretto ai bordi della tina dall’apposito attrezzo (4). Completata la mungitura si versava nel latte il caglio [caglio: sostanza acida estratta dall’abomaso dei ruminanti lattanti, impiegata per provocare la coagulazione del latte. Devoto-Oli] prelevandolo dallo stipu (2) dove si conservava dopo averlo opportunamente preparato estraendolo dagli stomaci degli agnellini comprati al mercatino di prodotti per la campagna che si teneva tutte le domeniche, di prima mattina, in piazza Salvatore.
Dopo circa un’ora (nel frattempo si provvedeva a sistemare mucche e vitelli) la cagliata (simile allo yogurt) era pronta (lo si capiva dalle tracce lasciate sul dorso del dito indice appoggiato leggermente sulla sua superficie). Si provvedeva, quindi, alla rottura della cagliata con la ruotila (6) e versando acqua calda, prima cottura, per far precipitare la caseina, la proteina del formaggio, e liberare a llacciata o siero grasso in quanto contenente un’altra proteina, la latto-albumina, capace di coagulare a seguito di una seconda cottura, da cui appunto l’appellativo di ricotta. 
Quando la caseina si depositava tutta in fondo alla tina si provvedeva a prelevare, co jaruozzu (7), a llacciata depositandola nta caurara, grande pentolone in rame e stagnato all’interno. La caseina, che nel frattempo era diventata tuma ovvero una pasta compatta, veniva conservata nella mastreda (5) dove finiva di scolare tutto il siero.

La ricotta. Il pentolone, a caurara, con il siero grasso veniva collocato nto fucularu (9), nel focolare, onde ricavare, con la seconda cottura, la ricotta. Occorreva un fuoco vivo e non di alta temperatura per cui si usavano frasche di ulivo o, anche, spine essiccate che, a suo tempo, erano state tolte dai campi migliorando così la qualità del pascolo e quindi il sapore e della ricotta e del caciocavallo. Nulla andava perduto! Si aggiungeva il sale nella quantità giusta e, dopo circa 10 minuti, u latti a ricotta cioè latte nel rapporto uno a dieci. Verso la fine della cottura, riconoscibile a occhio e quindi solo per esperienza, si aggiungevano i rufrischi, costituiti dal siero che nel frattempo era colato dalla tuma conservata nella mastreda, e quindi co minaturi (8) (canna con in fondo delle foglie di palma nana) si provvedeva a raschiare il fondo, tutto il fondo, del pentolone per facilitare la salita della ricotta che, più leggera del siero, si forma in superficie per uno spessore di alcuni centimetri. In superficie, quindi, u minaturi doveva spostarsi il meno possibile per lasciare compatto lo strato di ricotta. 
Al momento opportuno si tirava via il pentolone dal fuoco. Si provvedeva quindi a schiumare con un cucchiaio la ricotta, a liberarla cioè di quello strato leggero di sostanza lattiginosa che la ricopriva e che costituiva ottimo cibo per i gatti. Quindi si prendeva la ricotta. In parte si versava nelle scodelle e, assieme al pane, costituiva la mangiata di matina, la restante, da portare via e da vendere, si metteva nelle cavagne di canna, ormai scomparse, e nelle vascede, contenitori di giunco riutilizzate per anni e oggi di plastica usa e getta.
Il siero rimasto dalla ricotta, detto siero magro, aveva un suo potere nutritivo in quanto non tutta la latto-albumina si trasformava in ricotta e costituiva cibo per i maiali e per i cani. C’erano, anche allora, delle procedure, da alcuni praticate, per aumentare la trasformazione della latto-albumina in ricotta quali, ad esempio, l’aggiunta di siero fermentato. Veniva una ricotta più abbondante, più bianca, più lucida, più bella da vedere ma meno buona. Si guadagnava qualcosa in più col ricottaio ma ne soffrivano i maiali e non c’era convenienza a praticarle. La scomparsa dei maiali dalle masserie porta oggi invece a sfruttare al massimo la latto-albulmina a scapito della qualità. 
La ricotta che ci hanno offerto a Vittoria aveva un sapore poco ortodosso ma d’altronde chi può ormai riconoscerlo? Anche perché l’appetito di una volta, confinante con la fame, era certamente diverso.
Mi rivolgevo al Vescovo che mi aveva chiesto del modo di fare la ricotta e ovviamente va sostituita con la seguente.
C’è stata una modernizzazione nella lavorazione della ricotta, per il fuoco si usa il gas e non più frasche o spine e ho visto un miniaturi d’acciaio azionato da un motorino elettrico, e sicuramente il siero è sfruttato al massimo e magari “aiutato” a produrre di più. Di ricotta se ne trova in grande quantità nei negozi e nei super mercati, è bianca, bella e lucida e forse il sapore non è quello ortodosso ma d’altronde chi può ormai riconoscerlo? Anche perché l’appetito di una volta, confinante con la fame, dava certamente una percezione diversa del sapore.

Il caciocavallo. Dopo la mangiata di matina si procedeva alla lavorazione del caciocavallo. Si prendeva la tuma del giorno prima, talvolta anche di due o tre giorni nel caso di piccole quantità, e si tagliava a fette sottili dentro u stacciu (10), quindi vi si versava dell’acqua calda al punto giusto: calda a sufficienza per amalgamare bene, ma non troppo per non disperdere i grassi. Si procedeva quindi a impastare la tuma con la manovella (11). U stacciu poggiato a terra, il massaro in ginocchio sul ginocchio destro con, nella mano destra, un estremo della manovella che, facendo leva sul bordo dello stacciu portava, con l’altro estremo, la pasta verso l’alto. L’amalgamazione della pasta avveniva a seguito delle spinte contrapposte della manovella verso l’alto e della mano sinistra verso il basso. Posizione alquanto scomoda ma ottimale per dare la maggiore efficacia con il minimo sforzo. Dalla giusta combinazione delle temperature e dell’ambiente e dell’acqua con il lento, paziente e faticoso lavoro d’impasto, si otteneva l’ottima qualità del caciocavallo. La temperatura dell’acqua un po’ più alta avrebbe facilitato l’amalgamazione, quindi meno fatica ma anche meno qualità. Altrettanta importanza avevano tutte le fasi precedenti a partire dalla cura dei pascoli, dagli aromi dei foraggi, dal caglio adoperato, ecc. Insomma un procedimento complesso in cui ogni fase aveva la sua importanza e andava eseguita alla perfezione.
Impastato il caciocavallo, dai 6 ai 15 chilogrammi, lo si depositava nella mastreda, nella parte alta vicino al muro, lo si pressava con un apposito asse perpendicolare ai lati lunghi e si rigirava, nel corso della giornata, di modo che assumesse la caratteristica forma parallelepipeda. C’erano poi degli accorgimenti, non da tutti praticati, per ottenere gli spigoli e le teste arrotondate: bisognava, nelle prime ore, avere l’accortezza di rigirare più spesso il caciocavallo dentro la mastreda e allentare i blocchi alle teste. A fine giornata o il giorno dopo lo si immergeva nella salamoia per la prima salatura. Altro accorgimento consisteva nel lasciarlo un po’ all’aria prima di immergerlo nella salamoia di modo che la crosta assumesse un bel colore giallo oro e s’indurisse riducendo così la salatura e ottenendo un gusto più dolce e più buono. Se però la lavorazione non era stata condotta alla perfezione si rischiava la fermentazione e la spaccatura. 
La provola. Prima di deporre il caciocavallo nella mastreda si sottraeva, dal complesso dell’impasto, una piccola parte per realizzare la provola.

U tumazzu (tradotto oggi in canestrato) formaggio alternativo al caciocavallo e meno pregiato ottenuto direttamente dalla tuma conservata dentro una vasceda o canestro e senza tutto il lavoro d’impastatura del giorno dopo. I modicani eccellevano nel tumazzu e i ragusani nel caciocavallo.

La vendita. Il sabato i caciocavalli venivano portati coi carretti a Ragusa e venduti. La contrattazione avveniva la domenica mattina in piazza San Giovanni mentre i caciocavalli restavano a casa del massaro. La qualità veniva valutata in base alla fiducia tra commerciante e massaro. Poi nel primo pomeriggio passava il pesatore che lasciava un bigliettino con indicato il peso complessivo e quindi il commerciante curava il ritiro dei caciocavalli. 

 

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it