SECESSIONE? MIRAGGIO SENZA ORIZZONTI

Forse saranno in tanti coloro che, come me, non avrebbero mai immaginato di sentir parlare di secessione in Italia. Fra il serio e il faceto, la Lega ha proposto una consultazione online per l’indipendenza del Veneto, pomposamente chiamata referendum, e altri “balordi” sono stati arrestati perché pare pensassero di usare la forza per avviare un’insurrezione.

Al di là del grottesco insito in questi episodi, l’aspetto grave è che l’angoscia suscitata dalla crisi suggerisce a tanti nostri concittadini l’idea che circoscrivere una sfera d’azione più piccola possa salvarli dai problemi, per i quali cercano sempre un colpevole in modo schematico. Quando poi, come accade, c’è chi soffia sul vento della disperazione con la demagogia, tutte le idee, anche le meno fondate, appaiono buone. E in questi casi l’intolleranza e la xenofobia sono dietro l’angolo.

Così diventa credibile che in un’economia complessa e mondializzata già da un paio di secoli almeno, sia possibile creare opportunità di produzione, esportazione, ricchezza e lavoro costruendo uno stato piccolissimo, tutto nostro, senza intrusioni. Diventa credibile che basta tornare alla lira per ritrovarsi le tasche piene di soldi e i prezzi bassi, come se sui mercati internazionali potesse essere stabile la moneta di una nazione isolata e marginale e come se tutte le merci, e soprattutto il petrolio, si potessero acquistare a prezzi stabiliti con il parametro della moneta di un piccolo stato. Diventa credibile, in definitiva, che ci sia una soluzione facile e immediata che possa cambiare di male in bene le situazioni. È lo stesso meccanismo  che induce tanta gente a giocare forsennatamente alle mille estrazioni, lotterie e scommesse, nell’assurda e semplificatoria speranza che un evento possa così d’improvviso cambiare la vita e cancellare le preoccupazioni.

Soffia un forte vento di irrazionalità nella visione del mondo, della politica e dell’economia, che impedisce di vedere l’unica via percorribile: trovare la forza e il coraggio di ricostruire un Paese allo sbando, non con l’egoismo miope di agire ciascuno pro domo sua, ma con la lungimiramza della coesione sociale e di un progetto comune, a partire dall’indifferibile moralizzazione della vita pubblica. Non è più tollerabile la partitocrazia che mira solo ed esclusivamente ad occupare e spartire poltrone, e a null’altro, nè sono tollerabili scandali come lo sperpero sfacciato del denaro pubblico, come ci dicono le cronache delle inchieste sull’uso dei rimborsi in tante regioni, o, ancor peggio, gli intrecci fra politica e malavita, su cui l’arresto del campano Cosentino torna ad accendere i riflettori.

Ma forse la moralizzazione più urgente è la drastica riduzione dello scandaloso divario fra le retribuzioni d’oro di alcuni e i salari da fame di tantissimi altri. Fissiamo dei parametri che stabiliscano quante volte di più, al massimo, possano percepire le figure apicali di un settore lavorativo, rispetto ai lavoratori della base. Parametri equilibratamente commisurati alle responsabilità, alle competenze, alle specializzazioni, ma che non oltrepassino mai il criterio-guida: la dignità del lavoro. Senza giustizia sociale, non può esserci coesione.                                                                                

                                                                                                     

 

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