PER UN PUGNO DI TANICHE

Legambiente: “L’Italia sta diventando il paradiso fiscale dei petrolieri. Fermare subito le nuove trivelle dall’Adriatico, allo Jonio e fino al Canale di Sicilia. Il Parlamento cancelli l’articolo 35 del decreto sviluppo e ridia un ruolo decisionale agli enti locali”

Conclusasi  nel pomeriggio di mercoledì 17 luglio, una delle iniziative di Legambiente che ci propone un  dossier a livello nazionale sulla corsa all’ oro nero.

 È  stato evidenziato che, nel Canale di Sicilia oltre a quelli già rilasciati incombono 10 richieste di permessi di ricerca per 4mila kmq: a sud di Capo Passero, a largo di Gela, di Pozzallo, di Agrigento e tra Marsala e Mazara del Vallo

È corsa all’oro nero nel mare e del sottosuolo italiano: 24mila chilometri quadrati, un’area grande come la Sardegna, è sotto scacco delle compagnie petrolifere. Un fermento per le attività petrolifere favorito da scellerata strategia energetica nazionale che punta al rilancio della produzione di idrocarburi e in particolare da norme, come l’articolo 35 del decreto sviluppo, approvato il 26 giugno 2012, che hanno riaperto la strada alle attività anche nelle aree sottocosta e di maggior pregio. Un vero assalto al mare italiano, in particolare all’Adriatico centro meridionale, allo Jonio e al Canale di Sicilia dove, oltre a quelle già attive, potrebbero presto sorgere decine di altre piattaforme. Questo, nonostante i numeri dimostrino l’assoluta insensatezza di continuare a puntare sul petrolio: il mare italiano, secondo le ultime stime del ministero dello sviluppo economico, conserva come riserve certe, circa 10 milioni di tonnellate di greggio che, stando ai consumi attuali durerebbero per appena due mesi. Così, alla trasformazione energetica che negli ultimi dieci anni ha portato ad una quasi completa uscita dal petrolio dal settore elettrico, si risponde con un attacco senza precedenti alle risorse paesaggistiche e marine italiane, che favorirebbe soltanto l’interesse di pochi e sempre degli stessi: le compagnie petrolifere. Le realtà locali restano succubi di queste scelte scellerate: Regioni, Province e Comuni sono, infatti, ormai tagliate fuori dal tavolo decisionale. Il futuro, la bellezza, l’economia del nostro Paese viene svenduto per “pugno di taniche”.

Numeri, che disegnano una scenario senza precedenti – oltre che assolutamente insensato anche dal punto di vista economico – quelli che emergono dal dossier di Legambiente “Per un pugno di taniche”, presentato questa mattina a Pozzallo, da Rossella Muroni, direttrice generale Legambiente, Mimmo Fontana, presidente Legambiente Sicilia, Gianfranco Zanna, direttore Legambiente Sicilia, alla presenza di Vera Greco, rappresentante della Regione Siciliana nella Commissione nazionale VIA-VAS, presso il Ministero per l’Ambiente. Il dossier inedito arriva durante la tappa siciliana di Goletta Verde, la storica campagna di Legambiente che da vent’otto anni è in prima linea a difesa del mare e delle coste italiane e che anche quest’anno sta concentrando la propria azione nella lotta contro le trivelle.Proprio da Goletta Verde arriva un appello a Governo e Parlamento affinché non solo vengano riviste le scellerate scelte politiche in materia energetica praticate dall’ex ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, a partire dall’abrogazione dell’articolo 35 del decreto sviluppo, ma soprattutto venga ridata voce e possibilità di scelta ai territori e alle popolazioni interessate dalle richieste di estrazioni avanzate dalle compagnie petrolifere.

“Nonostante i dati dimostrino una graduale uscita dal petrolio, nell’ultimo anno è aumentata la produzione di greggio nel nostro Paese – dichiara Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente – Siamo di fronte a un attacco senza precedenti alle bellezze del nostro Paese. Stiamo cedendo chilometri di costa e sottosuolo in cambio di una presunta, quanto irreale, indipendenza energetica. La realtà è che l’Italia è diventata una sorta di paradiso fiscale per i petrolieri. Per loro il rischio d’impresa, grazie alle ultime leggi, è quasi nullo, mentre restano incalcolabili i rischi per l’ambiente. Occorre fermare al più presto questa insensata corsa all’oro nero e per questo chiediamo al Parlamento di abrogare l’articolo 35 del decreto sviluppo, vera manna dal cielo per i petrolieri. Ma occorre anche una forte azione congiunta di Regioni, Province, Comuni e tutti gli altri Enti Locali nei confronti del Governo per assicurarsi un ruolo determinante in scelte così importanti per il loro futuro”.

I numeri della corsa all’oro nero. Nel 2012, in Italia, si sono estratti 5,4 milioni di tonnellate, il 2,5% in più rispetto all’anno precedente, di cui 473mila in mare. A dare il contributo maggiore la Basilicata con oltre il 75% del petrolio estratto. In mare, invece, le regioni petrolifere sono rappresentate dal mare Adriatico centro meridionale e dal canale di Sicilia, dove si trovano le 10 piattaforme oggi attive, sulla base di concessioni che riguardano 1.786 kmq di mare. Le aree interessate da richieste per la ricerca e la coltivazione di giacimenti e dalle attività di ricerca su cui un domani potrebbero sorgere nuove piattaforme però sono molte di più: sono 7 le richieste per la coltivazione di nuovi giacimenti per un totale di 732 kmq individuati (ovvero dove le ricerche sono andate a buon fine), che andrebbero a sommarsi ai 1.786 kmq su cui già insistono le piattaforme attive; sono 14 i permessi di ricerca attivi per un totale di 6.371 kmq. Infine sono 32 le richieste di ricerca di idrocarburi per un totale di 15.574 kmq di mare non ancora rilasciate ma in attesa di valutazione e autorizzazione da parte dei ministeri dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e dello Sviluppo economico.

In definitiva, tra le aree dove insistono le piattaforme attive, quelle su cui è stato richiesto il permesso per sfruttare nuovi giacimenti, quelle in cui sono in atto attività di ricerca e quelle in cui si vorrebbero cominciare, l’area sotto scacco delle compagnie petrolifere è circa 24mila kmq, un’area grande come la Sardegna.

 

Tanto rumore per nulla: quantitativi e posti di lavoro. I quantitativi di petrolio in gioco sono davvero risibili e dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive e della spinta verso nuove trivellazioni volte a creare secondo i proponenti 15 miliardi di euro di investimento e 25 mila nuovi posti di lavoro. Nulla in confronto ad una politica energetica basata su risparmio, efficienza energetica e fonti pulite e rinnovabili che potrebbe portare nei prossimi anni i nuovi occupati a 250 mila unità. Ossia 10 volte i numeri ottenuti grazie alle nuove trivellazioni e soprattutto garantire uno sviluppo futuro, anche sul piano economico, sicuramente molto più sostenibile e duraturo. E invece di ragionare su come aumentare la produzione di petrolio nazionale, avremmo potuto mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili, a partire dai settori che sono ancora indietro su questo. Ad esempio invece di regalare al settore dell’auto trasporto ogni anno, come avvenuto negli ultimi dieci anni, circa 400 milioni di euro sotto forma di buoni carburante, sgravi fiscali e bonus per i pedaggi autostradali, si fossero utilizzati quei 4 miliardi di euro per una mobilità nuova per rendere più sostenibile il modo con cui si spostano merci e persone in questo paese, avremmo avuto riduzioni della bolletta petrolifera e delle importazioni di greggio ben maggiori e durature rispetto a quel pugno di taniche presente nei mari e nel sottosuolo italiano.

 

Il caso Sicilia. Nel canale di Sicilia al momento ci sono 5 permessi di ricerca rilasciati per un totale di 2.446 kmq. Rispetto allo scorso hanno non ci sono più i 6 permessi di ricerca a largo delle Egadi di cui era titolare la Shell Italia E&P. Un dato positivo che mette la parola fine, almeno per il momento, sulla petrolizzazione di quella zona. Le isole già nel 2011 erano state protagoniste di un blitz di Goletta Verde in cui si denunciava la minaccia per questo preziosissimo e delicato ecosistema marino. Un’attività petrolifera che al momento sembra sospesa ma su cui resta alta l’attenzione.

Le attività continuano comunque rigogliose in tutto il resto del Canale di Sicilia, dove le compagnie interessate si sono spartite l’area in maniera quasi omogenea, con la Eni – Edison che hanno due permessi di ricerca per un totale di 831 kmq nel territorio di Licata; la Northern Petroleum ha invece un solo permesso di ricerca rilasciato per un’area di 620 kmq nella porzione di area di fronte a Ragusa, mentre la compagnia Audax Energy ha un permesso nel mare dell’isola di Pantelleria di 657 kmq. Infine la Vega Oil ha un permesso a largo di Ragusa per un’area marina di 337 kmq. Oltre ai permessi già rilasciati incombono nel Canale di Sicilia 10 richieste di permessi di ricerca per circa 4.050 kmq: a sud di Capo Passero (SR), a largo di Gela; a largo della costa di Pozzallo (tra Gela e Siracusa); a largo di Agrigento e nel tratto di mare tra Marsala e Mazara del Vallo.

“Nel 2012 le maggiori produzioni di petrolio dei mari italiani si sono registrate nelle piattaforme ubicate nel Canale di Sicilia, dove la piattaforma Vega A ha prodotto da sola oltre il 30% del totale estratto a mare, mentre nell’intera area marina (comprensiva anche delle piattaforme di Gela, Perla e Prezioso) si è prodotto circa il 62% del totale di produzione di greggio marino – dichiara Mimmo Fontana, presidente Legambiente Sicilia – Una folle corsa che non accenna a fermarsi e rischia di mettere in pericolo una delle maggiori risorse di quest’isola, che non è certamente il greggio ma i suoi paesaggi naturali e marini. Invece, per un “pugno di taniche” stiamo vendendo il nostro futuro alle compagnie petrolifere. Aumentando, inoltre, esponenzialmente il rischio per il nostro territorio, perché stiamo autorizzando pozzi a una profondità maggiore addirittura di quello che ha danneggiato il Golfo del Messico. Oggi abbiamo reso queste estrazioni economicamente vantaggiose; pozzi fuori controllo che nessuno può garantire in caso di incidenti. Occorre fare fronte comune per fermare quest’assurda invasione nei nostri mari e ridare così agli enti locali e agli stessi cittadini la possibilità di riappropriarsi delle scelte che riguardano i loro territori”.

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