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Il toccante addio di Don Corrado Lorefice a Papa Francesco: resterà il mio pastore
23 Apr 2025 06:00
Certe parole non si dimenticano. Restano lì, scolpite nel cuore, come fari nelle notti più buie. Quando Papa Francesco, nel 2015, chiamò un semplice parroco di Modica, don Corrado Lorefice, a guidare la diocesi di Palermo, non gli diede solo una nomina: gli affidò una missione, accompagnata da un’esortazione che oggi suona come una carezza eterna: «Resta quello che sei».
Oggi, mentre si prepara a rendere l’ultimo saluto al pontefice che lo ha scelto, amato e formato, monsignor Lorefice si confessa con una commozione rara. «Lo ricordo con affetto filiale. Con me aveva una relazione paterna. Era un uomo impregnato di Vangelo. Potete immaginare cosa significhi saperlo ora tra le braccia di Dio. È una mancanza, sì. Ma ho una certezza: continuerà a guidare i miei passi. Mi ha lasciato tanti segni». Uno di quei segni sarebbe dovuto arrivare il 19 febbraio scorso, giorno di San Corrado. Un appuntamento a Roma, un incontro tenerissimo, pensato con una bambina migrante salvata dalle acque del Mediterraneo. «Sarebbe stato un dono immenso – racconta Lorefice – ma il suo ricovero in ospedale lo impedì. Mi porto nel cuore l’abbraccio che avrebbe dato a quella bimba, lo sguardo unico che sapeva donare a ciascuno».
Non sarebbe stato il primo incontro del genere. Il vescovo ricorda con emozione il viaggio a Roma del 2019, quando si recò dal Papa insieme a Francois, un giovane migrante accolto dalla comunità di Biagio Conte. Francois, sarto, confezionò un grembiule che Francesco utilizzò nel Giovedì Santo per lavare i piedi ai detenuti del carcere minorile di Roma. «Un gesto che è Vangelo incarnato, un gesto che dice tutto». I viaggi di Francesco in Sicilia – sottolinea Lorefice – hanno sempre avuto una cifra inconfondibile: la misericordia, il dolore, la denuncia. «Il suo primo viaggio fuori dal Vaticano fu a Lampedusa, l’8 luglio 2013. Non fu un viaggio in Italia, ma un viaggio universale. Da lì ci lasciò tre domande che sono ferite aperte per l’umanità: Adamo, dove sei? Dov’è tuo fratello? Chi ha pianto per loro?».
E poi, la lotta alla mafia. La Sicilia di Francesco non è solo terra di approdi disperati, ma anche terra di martiri. Padre Pino Puglisi, i giudici Livatino, Falcone, Borsellino: “le cattedre di giustizia”, come le definì il Papa, collegandosi lo scorso anno con la Facoltà Teologica di Palermo. «Colpiva – dice Lorefice – che un Papa venuto dalla fine del mondo parlasse così profondamente della nostra terra, di questa Sicilia ancora segnata dal sangue. Eppure, in questa terra, ha visto anche il seme buono: l’impegno di tanti cristiani». Papa Francesco non si è limitato a parlare: ha tuonato. Ha ribadito, come già fece Giovanni Paolo II, che “ai mafiosi non resta che convertirsi”. E ha lasciato in eredità, nelle parole dell’arcivescovo di Palermo, «una Chiesa che non si piega alle logiche del potere, ma si appassiona al Vangelo, che abbraccia gli ultimi, i dimenticati, i poveri come fratelli». Una Chiesa che ora, senza la sua voce, è più sola. Ma anche più consapevole. Perché chi ha parlato con il cuore del Vangelo – come Francesco – non muore: si fa seme. E come disse lui stesso, se c’è la zizzania, vuol dire che c’è anche il buon grano.
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