ULTIMO SALUTO ALL’EROE SICILIANO GIUSEPPE ANSALDI

L’odierna letteratura della vita è solitamente attraversata da una massa multiforme e indistinta di antieroi, inetti ed alienati le cui gesta non sono di certo epiche o degne di nota.

La storia, invece, di Giuseppe Ansaldi è una pietra miliare di valori apartitici che stringono gli Italiani tutti nel ricordo dell’eccidio italiano di Cefalonia del 1943 ad opera dei militari tedeschi.

Ansaldi, militare deportato, siciliano , uomo straordinario, medaglia d’onore della Repubblica, reduce di Cefalonia è morto a Novi Ligure il 14 agosto 2012.

Scampato al massacro della Divisione Acqui, fu deportato in seguito al rifiuto di giurare fedeltà alla repubblica nazifascista di Salò.

Annoverabile tra gli”eroi silenziosi”che vennero definiti IMI (Internati Militari Italiani), finì in campo di concentramento in Bielorussia, Turkmenistan e poi in India sotto gli inglesi.

Dopo il dramma ritorna nella sua amata Giarratana, ma conserva vivo nella memoria il ricordo di quei giorni di sfacelo e cerca di veicolare quelle immagini di dolore proprio per non farle disperdere nell’oblio, come bolle di sapone.

“Un EROE della libertà , un caro amico, Novese d’adozione nel cuore Giarratana”.

L’ultimo saluto oggi, giovedì 16 agosto, a Novi Ligure. 

 

Di seguito la pregante intervista di Claudia Gambarotta del Luglio 2010 al nostro indimenticabile eroe siciliano.

 

L’eccidio di Cefalonia nel racconto

di un sopravvissuto

Novi Ligure – Giuseppe Ansaldi, ottantotto anni e un’immagine negli occhi che non lo mai abbandonato: l’ulivo 

che fissava sull’isola greca di Cefalonia mentre aspettava di essere fucilato dai soldati tedeschi. “Come tanti reduci,

ero chiuso in me stesso, nei miei ricordi e non ho raccontato quello che è successo a Cefalonia per molti anni,

neppure ai miei famigliari” – ci spiega – “Mi sono aperto molti anni dopo, quando sono venuto alla Camera del Lavoro,

dove presto la mia opera di volontariato da quando sono pensionato. Porto la mia testimonianza scuole, raccontando alle giovani generazioni

l’eccidio e la mia terribile esperienza di prigioniero.”

Signor Ansaldi, cosa accade a Cefalonia dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943?

Ero sull’isola con la 33ª Divisione fanteria “Acqui”, comandata dal generale Antonio Gandin: avevamo il compito di presidiare Cefalonia.

Dopo l’armistizio, si sono susseguiti momenti di grande confusione e tensione. Ordini e contrordini si sono succeduti, finchè il comando

tedesco prese contatti con il nostro, ordinando una resa incondizionata.

Come avete reagito alla richiesta del comando tedesco?

Data la situazione, il generale Gandin decise di svolgere un referendum tra le truppe, da cui emerse la nostra volontà di resistere. I combattimenti durarono sei giorni, poi

l’esercito tedesco ebbe il sopravvento.

Noi eravamo pochi e nessuno venne in nostro soccorso. Badoglio, da Bari, inviò un telegramma: “Che Dio vi aiuti” scrisse, in risposta alla richiesta di aiuto

di Gandin, abbandonandoci al nostro destino. Dal 19 settembre, cominciarono le fucilazioni dei soldati ed ufficiali italiani (si calcola che, in totale, i morti furono 9.000).

Come si è salvato delle fucilazioni?

Il 22 settembre sono stato fatto prigioniero. I soldati tedeschi ci mettevano in riga, vicino ad un burrone e con una raffica ci buttavano giù. Ero già in fila per la fucilazione,

quando è arrivato un ufficiale tedesco che ha contato 10 persone da d e p o r t a re: io ero la quinta, così mi sono salvato.

Così è cominciata la sua vita da prigioniero.

Il 27 settembre c’imbarcarono per portarci ad Atene: la nave su cui ero è affondata dopo aver urtato contro una mina. Anche lì sono sopravvissuto, aggrappandomi ad

un pezzo di legno. Dopo qualche tempo, ci hanno portato a Misk (città dell’attuale Bielorussia) in un campo di prigionia. Freddo, fame e sofferenze di ogni tipo erano i nostri

compagni quotidiani. Nel ‘44 le truppe tedesche hanno cominciato a ritirarsi e ci hanno portato in Polonia, abbandonandoci poi all’esercito russo, che ci ha trasferito a Tambov, a sud est di Mosca.

Ammassati in baracche sottoterra, vivevamo in condizioni disumane.

Cosa l’ha aiutata a resistere ?

Ho travato in me tanta forza di volontà e ho lottato ogni giorno per la mia sopravvivenza, cercando, tramite alcuni espedienti, di migliorare le mie condizioni, recuperando, ad esempio, qualcosa

da mangiare. Ho visto tanti miei  compagni che si sono lasciati andare alla morte, in preda alla disperazione, alla malattia, alla fame. Tra noi prigionieri c’era tanta solidarietà e cercavamo di farci coraggio a vicenda. Dividevamo tutto, persino le briciole di pane.

Dopo tante traversie la guerra finisce nel ’45 e lei è tornato a casa.

Da Tambov siamo stati trasferiti a Taschen in Turkistan, a raccogliere il cotone. Un giorno è arrivato nei campi un ufficiale a cavallo annunciando che la guerra era finalmente finita. Così nel novembre

del ‘45 ci hanno messo su un treno e in 77 giorni siamo arrivati in Italia. Il Paese era distrutto e per arrivare a Giarratana, mio paese natale in Sicilia ci ho impiegato molto tempo, arrangiandomi lungo la via a percorrere

lunghi tratti a piedi. Proprio a Giarratana hanno intitolato una “villa” come diciamo noi, cioè un giardino, alla Divisione Acqui. Qui a Novi Ligure, in via Garibaldi, c’è un monumento ai caduti della Divisione Acqui, che io stesso ho scolpito, grazie all’interessamento e all’aiuto del geometra Dario Ubaldeschi.

Per me era importante lasciare una testimonianza visiva di quel terribile eccidio”.

 

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