Ormai nessuno (quasi) usa la parola “resilienza”. Era ora!

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

I segnali ci sono tutti. C’è vita sul pianeta Caos. Dopo la pandemia pandemica, siamo tornati creativamente a una normalità creativa. Forse. Anche qui. La dea Normalità fuoriesce dalle acque come in una primavera di Picasso. 

Picaos. Signs. I segni qua e là, ad esempio: l’uso non più ossessivo-compulsivo di certe parolone trendy che vogliono dire tutto e pure una beata.

Sì, infine, in qualche modo ritorneremo normali (come non lo fummo mai). A volte ritornano. Normali. 

E a proposito di capacità reattiva e ritorno alla normalità, gli analisti avevano scomodato una super parola, come gemma luminosa in una costellazione ermeneutica buona per ogni occasione, la parola chiave “resilienza”, fino a ieri, un termine a lungo abusato che la psicologia ha preso a prestito disinvoltamente dalla metallurgia e dall’ingegneria: la capacità di un materiale di resistere agli urti senza rompersi. 

Non ci bastava la più familiare parola “resistenza”, perché non si tratta solo di opporsi ad una forza schiacciante riuscendo a non esserne distrutti, restando però deformati. La resilienza è di più: è la capacità (attiva e consapevole) di ritornare alla situazione precedente, recuperando in bellezza la forma originaria. 

Intendiamoci. Per me non è solo una questione estetica: la parola è bruttina, non eufonica e suona proprio male (è un “anglicismo” di etimo latino incerto e mater certa USA).

Certo, essere assimilati a un pezzo di latta o a un tronco d’acero, seppure per immagine lineare e diretta, non è particolarmente lusinghiero o edificante. Rimpiango gli anni ormai lontani dell’Università nei quali, nel lessico della psicologia sperimentale, venivo paragonato a uno scimpanzé o a un orango o a un cane (pavloviano). Almeno gli animali possono vantare la tenera complessità dei sentimenti. Il bronzo no. Non l’avevo considerato.

Il costrutto della resilienza era profondamente errato. Per almeno tre ragioni. La prima. È fuorviante alludere alla capacità di una persona di ritornare allo stato iniziale dopo un evento traumatico o alla capacità di resistere alle tempeste della vita recuperando lo stato precedente al trauma. All’origine del termine, troviamo invece proprio questo aspetto: saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, in modo più o meno elastico. Ripristinare. 

Al contrario, io ho riscontrato puntualmente nelle persone (in carne, sangue e anima) uno slancio vitale inteso a costruire nuovi scenari interiori, nel bisogno della realizzazione e nel diritto alla felicità. Sotto questa luce, noi italiani medi potremmo aspirare a diventare migliori di come eravamo quattro anni fa? 

Accenno soltanto alle altre due ragioni.

La differenza di comportamento degli individui di fronte allo stesso evento stressante dipenderebbe essenzialmente, secondo la definizione di resilienza, dalle sue risorse interne, dalle disposizioni individuali e dalle caratteristiche della persona (del materiale, in metafora). Quando invece dovrebbe essere considerato cruciale il contesto delle relazioni.

Infine, nell’interpretazione “maschile” dei sintomi, quello della resilienza è un costrutto involontariamente e implicitamente discriminatorio nei confronti delle donne (che hanno subìto maggiormente l’impatto della pandemia e delle sue implicazioni) e non riflette una lettura femminile della complessità.

Ecco perché i segnali di una nostra guarigione si vedono già: è quasi svanita la parolastra “resilienza”.

Bene, il giorno in cui scomparirà anche l’uso di “piuttosto che”, potremo dirci persino salvi.

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