Morte di Elisabetta Ciabani, il mistero di Sampieri compie 40 anni

Un mistero è tale se dura un bel po’. In questo caso, la domanda rimane la stessa, da 14.609 giorni o, se volete, da 480 mesi: può una giovane porre fine alla propria vita pugnalandosi dapprima all’altezza del pube e da lì salendo fino all’ombelico, quindi estrarre il coltello e avere la forza di conficcarsi quasi tutta la lama lunga 16 centimetri sotto il seno sinistro? Tutto sembra combaciare in questo strano suicidio: la noia di un’esistenza anonima, la vacanza mal digerita a oltre 1.100 chilometri da casa, gli studi universitari praticamente interrotti e svoltati nella preparazione a un concorso alle poste, l’innata timidezza che non agevola nei rapporti con i coetanei. Niente fidanzati, insomma.

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Quella donna era tutto questo, secondo le due indagini archiviate, sempre con uguale dicitura: “Non doversi procedere all’azione penale”. Tutto sembra combaciare, tranne la modalità del tragico gesto: plateale, brutale, a tratti irreale nello stesso tempo. Così si ritorna al punto di partenza. Un “cold case” si dice oggi, nell’era delle serie tv. O meglio: un caso risolto per la magistratura, irrisolto per l’opinione pubblica. A partire dai placidi vacanzieri che all’ombra della Fornace Penna, ancora storditi dalla clamorosa vittoria dell’Italia nel Mundial spagnolo di calcio un mese e mezzo prima, si ritrovarono invece nelle pagine di cronaca nera di tutti i quotidiani nazionali, che avanzarono subito la prima ipotesi: delitto a opera di un maniaco sessuale. Dopo qualche anno, emerse anche l’azione – sarebbe stata l’unica, clamorosa perché lontana dalle terre toscane – del mostro di Firenze. Un triste rituale che poi si ripetette in altre analoghe occasioni, quando l’immancabile delitto estivo tirava copie di giornali e commozione generale.

Sampieri, mattina di domenica 22 agosto 1982, ore 9,30 circa. Elisabetta Ciabani, 22 anni, di Firenze, ex studentessa del secondo anno della facoltà di architettura nella sua città dove svolge lavori saltuari, viene rinvenuta senza vita, riversa sul fianco destro nel terrazzo del residence Baia Saracena, adibito a lavanderia degli ospiti dei 42 appartamenti dati in affitto breve. Sotto il cadavere una pozza di sangue, soprattutto fuoriuscito dal colpo mortale inferto nella regione cardiaca. Il corpo è completamente nudo, adagiato sopra un costume intero, accanto le ciabatte di plastica. A scoprire il cadavere è una delle ospiti del residence, che avverte il marito e quest’ultimo la portinaia, signora Elena. Qualcuno chiama i carabinieri la cui stazione dista 150 metri. Accorrono due militari dell’arma, fra cui il brigadiere Giovanni Fontana. La perizia medico-legale, eseguita il giorno dopo nell’obitorio del cimitero di Scicli dal professore Leonardo Giuliano, docente dell’università di Catania, accerta l’assenza di segni di difesa e di colluttazione e propende per il suicidio della ragazza. Nei verbali dell’epoca è scritto dell’assenza di impronte digitali. Non è chiaro se sull’impugnatura fossero presenti soltanto quelle di Elisabetta.

Le indagini riavvolgono il nastro degli ultimi giorni della giovane, descritta dai familiari dal carattere chiuso, semplice ma introverso. Elisabetta Ciabani arriva a Sampieri il 1 agosto a bordo di una Fiat Panda rossa guidata dalla sorella maggiore Gianna. Due giorni dopo, le sorelle sono raggiunte dalla madre Anna Maria e dal fratello Riccardo. Arrivano anche Silvano, compagno di Gianna e, circa due settimane successive, la madre di quest’ultimo. Alla vigilia di Ferragosto, mamma Anna Maria e Riccardo fanno ritorno a Firenze in treno. Anche Elisabetta vorrebbe tornare perché a parte l’ottimo mare, a Sampieri si annoia. Viene però convinta a restare per stare vicino alla sorella nel lungo viaggio di ritorno in auto, a fine mese. Il 21 agosto, Gianna e Silvano vanno a visitare Cefalù. Quella sera, Elisabetta va a prendere un gelato nel bar ubicato sotto Baia Saracena. Dopo una cena frugale consumata insieme alla mamma di Silvano, va a letto presto, non prima però di essersi smaltata le unghie.

La mattina del 22 agosto, dopo essersi svegliata, dice alla sua co-inquilina che va in terrazzo a stendere la biancheria. Sale le scale verso la lavanderia, tenendo in mano un secchio di colore azzurro, come testimonia la portinaia che è l’ultima a vederla viva. Il contenitore compare nella scena del ritrovamento. È la fra la nuca e la spalla destra. Sulla lavatrice sono rinvenuti la sua maglietta, il tappo della confezione di detersivo e lo scatolo di coltello marca Caimano con il prezzo ben visibile, 1.600 lire. Si scoprirà che Elisabetta lo aveva acquistato il pomeriggio prima, nell’emporio sottostante. Tutto propende per il suicidio. Però. La donna si denuda prima di compiere il gesto? Possibile, dicono alcuni esperti: “immagina che senza ostacoli la lama compia il proprio corso”. La prima pugnalata al basso ventre? Anche qui, criminologi affermano che chi si pugnala spesso saggia la lama in altre zone del corpo. Sarà. Ma proprio sventrandosi? E il detersivo aperto? Una vuole farsi il bucato, poi ci ripensa e si ammazza? I dubbi restano, molto più di quelli legati all’assenza di un segnale anticipatore e di un biglietto di commiato. I familiari sono stati sempre convinti che Elisabetta sia stata uccisa.

Sette mesi dopo il fatto, l’inchiesta viene archiviata dal giudice istruttore della Procura di Modica, Emanuele Di Quattro. “Le indagini non hanno acquisito alcun elemento per sostenere che Ciabani Elisabetta sia stata uccisa e pertanto deve ritenersi che la stessa si sia suicidata”. Una successiva perizia, promossa nel maggio del 1989 dal procuratore capo di Modica Francesco Bua, aperta anche sulle dichiarazioni alla stampa del maresciallo dei carabinieri nel frattempo in pensione, Giovanni Fontana (“non ho mai creduto alla tesi del suicidio”), e affidata a due medici legali di Firenze, propende per il suicidio “per l’assenza di ferite o di altre lesioni traumatiche da difesa, per la presenza di ferite d’assaggio alla parete addominale, nonché per la presenza di macchie di sangue sulla superficie superiore delle ciabatte, con completa assenza di esse sulle inferiori, a dimostrazione che non vi fu calpestio sul pavimento imbrattato”.

A metà degli anni Novanta, libri e articoli di giornali rilanciano una tesi affiorata già nell’82, ma mai approfondita. Elisabetta sarebbe stata amica di Susanna Cambi, uccisa nell’ottobre 1981 insieme al fidanzato Stefano Baldi a Travalle di Calenzano. Il duplice omicidio è senz’altro opera del cosiddetto “mostro di Firenze”, denominazione che si utilizza su uno o più uomini che tra il 1974 e il 1985, in notti di novilunio, compiono sette duplici omicidi nelle campagne vicino al capoluogo toscano. La tesi è che Susanna avrebbe confidato all’amica il nome del guardone che si nascondeva mentre si appartava con Stefano. Il guardone era il mostro che, saputo della confidenza, sarebbe sceso fino a Sampieri per uccidere una scomoda testimone della sua identità.
Pro memoria sulla vicenda del “mostro di Firenze”. Nel 2000, due uomini identificati come autori materiali di quattro duplici omicidi, i cosiddetti “compagni di merende” Mario Vanni e Giancarlo Lotti (reo confesso e chiamante in correità dei presunti complici) furono condannati in via definitiva. Un terzo, Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per i duplici omicidi commessi dal 1974 al 1985 e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto a un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell’annullamento nel 1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione.

Questa ipotesi cozzerebbe su due particolari: l’incertezza sulla stretta amicizia fra Elisabetta Ciabani e Susanna Cambi e la macabra firma che il mostro lasciava sui corpi delle vittime, mutilandoli. Però.
Rimane la domanda, una sola: può una giovane porre fine alla propria vita pugnalandosi dapprima all’altezza del pube e da lì salendo fino all’ombelico, quindi estrarre il coltello e avere la forza di conficcarsi quasi tutta la lama lunga 16 centimetri sotto il seno sinistro?  

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