LA CIVILTÀ … E IL DILEMMA!

C’è un filo rosso che collega la nostra città al problema dell’Ilva di Taranto, anche se solo concettualmente, il binomio “lavoro e morte” ha toccato la nostra comunità proprio il 14 agosto con la morte di un operaio di 38 anni padre di due bimbi …

Morire per sostenere la propria famiglia è un evento che ha sempre una sua drammaticità aggiuntiva rispetto agli altri tipi di incidenti che purtroppo creano vittime.

In un momento di crisi economica come quello che stiamo attraversando alla drammaticità dell’evento “morte sul lavoro” si aggiunge lo spettro della “morte del lavoro” che fa sprofondare la persona nel baratro di un dilemma angosciante tra il rischio della “morte fisica” e il rischio della “morte sociale” (forse l’espressione è forte, ma cos’è restare senza lavoro con una famiglia da mantenere?).

Questo sembra essere il dilemma davanti al quale si trova la comunità di Taranto!

E’ ovviamente sbagliato polarizzare il discorso sull’atto giudiziario di un magistrato che nell’espletare la propria funzione pone il problema di una fabbrica che inquina e che costituisce un rischio concreto per la salute degli abitanti di una città …

La figura del “giudice” nasce per tutelare i diritti dei “deboli” dallo strapotere dei potenti come insegna il mugnaio prussiano che si appella al giudice di Berlino contro il re … quindi mi sembra normale che un magistrato si senta in dovere di tutelare in questo caso un diritto “diffuso” (e non rappresentato) alla salute dei Tarantini nei confronti di interessi “concentrati” (e ben rappresentati) in capo all’azienda e ai lavoratori.

Ma dicevo che è sbagliato porre in questi termini la vicenda di Taranto: significa piegarsi alla logica dello scegliere tra due mali, la malattia o la disoccupazione.

Non ci si può e non ci si deve piegare a questa logica! Accettare questa logica significa accettare un arretramento di civiltà!

Attenzione, non voglio nascondere il problema che esiste ed è enorme, ma denunciare un’assenza grave e imperdonabile e frutto di un modello culturale che ha prodotto un’infinità di guasti nella nostra società e questo tra gli altri.

Quando ci sono interessi in conflitto, come in questo caso, deve entrare in scena la Politica che altro non è che “composizione di conflitti”.

Ebbene se siamo al punto di dover decidere se chiudere una fabbrica che occupa 15.000 persone o accettare che continui ad avvelenare l’ambiente non c’è dubbio che il conflitto irrisolto è frutto della latitanza della politica, ma si badi bene non per “assenza”, ma per “rinuncia”!

Il liberismo in salsa italica ha abdicato ideologicamente al proprio ruolo di “regolatore del mercato” astenendosi dall’ intervenire o intervenendo solo su input del mondo aziendale: ricordate i vari interventi nei convegni degli industriali con sperticate esibizioni di perfetta consonanza tra il Governo e le aziende o in alcuni casi addirittura le esibite richieste di indirizzo degli interventi legislativi?

Ebbene ora raccogliamo i frutti di quell’appiattimento culturale sulle istanze della produzione: l’Ilva che è un’azienda sana e che produce utili non è stata ne stimolata ne costretta a indirizzare nel tempo parte degli utili alla   riqualificazione ambientale.

Tutti i nodi vengono al pettine, ed ora assistiamo dopo il ricatto occupazionale al quale oramai ci siamo abituati (ricordate i famosi referendum negli stabilimenti Fiat? O “accetti” le condizioni dell’azienda o la fabbrica chiude, complice l’assordante silenzio di un governo compiacente!), al ricatto esistenziale (o rinunci alla salute o rinunci al lavoro!).

Vi sembra un’alternativa degna di un Paese “civile”?   

 

                                                                                                                     

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