Il rapimento di Alfredino (poi ucciso) e la ferita che segna ancora la città di Vittoria

VITTORIA – Il rapimento lampo del 17enne vittoriese, durato appena 24 ore e concluso con il ritorno a casa del ragazzo nella serata di martedì, continua a far discutere. Mentre gli inquirenti setacciano le immagini delle telecamere e inseguono le due Fiat Panda – una bianca e una nera – che avrebbero trasportato il commando armato, la comunità di Vittoria non può non tornare con la memoria a un passato segnato da sequestri che lasciarono cicatrici profonde.

Per ritrovare nella memoria collettiva un trauma simile a quello che oggi scuote Vittoria bisogna tornare all’11 maggio 1946, quando la città fu sconvolta dal rapimento e dall’omicidio del piccolo Alfredino Fuschi, appena quattro anni. Un episodio che, a quasi ottant’anni di distanza, resta inciso come una ferita nella storia iblea.


L’incubo del piccolo Alfredino (1946)

Il caso che più sconvolse la città fu quello del piccolo Alfredino Fuschi, un dramma che ancora oggi, a quasi ottant’anni di distanza, resta scolpito nella memoria dei vittoriesi. Alfredino aveva solo quattro anni quando, l’11 maggio 1946, venne rapito dall’ex banconista della pasticceria di famiglia, un uomo che conosceva bene i Fuschi e che agì con l’aiuto di due complici.

In quelle ore concitate, il banditore cieco Paolo Lucifora, conosciuto come Paulu l’uorvu, percorreva le strade annunciando con voce rotta:
«Si persi ’n picciriddu ’i quattr’anni e a matri ’u va circannu. Cu n’avi notizzi parrassi ccu don Pidrinu Fuschi, ra pasticceria Tre Marie».
Era stato autorizzato dal podestà-sindaco per dare notizia della scomparsa. Non sapeva, come non lo sapeva la famiglia, che il bambino era già stato ucciso la sera stessa del sequestro.

Come racconta il giornalista e scrittore Salvatore Genovese nel suo romanzo-reportage Bretelline rosso sangue, la Vittoria del dopoguerra era una città segnata dalle cicatrici della guerra e attraversata da povertà, banditismo e disordine sociale. In questo clima tre giovani – Giovanni Solarino, Salvatore Affè e Giovanni Cilia – maturarono un piano crudele: rapire il figlio del pasticcere Pietro Fuschi, ex datore di lavoro di Affè, per ottenere una somma di denaro “non esagerata ma sufficiente a togliersi qualche sfizio”.

Affè conosceva bene Alfredino, cliente abituale della pasticceria Tre Marie. Fu lui a convincerlo a seguirlo, con il pretesto di un giro in bicicletta. Ma il bambino “li conosceva” e proprio questo, secondo le ricostruzioni, decretò la sua condanna. “Mi canusci. Nun lu putiemmu lassari vivu”, avrebbe detto uno dei rapitori. Solarino risolse freddamente il “problema”: Alfredino fu strangolato, legato con le sue stesse bretelline e finito con un colpo alla testa.

Per oltre un anno, però, i tre complici mantennero viva la tragica illusione. Inviarono lettere sgrammaticate alla famiglia, chiedendo riscatti sempre più alti, mentre il corpicino del piccolo giaceva nascosto in una grotta di contrada Cannavate. Il padre Pietro, nella speranza di riabbracciare il figlio, pagò complessivamente circa 3 milioni di lire, cifra enorme per l’epoca. Persino il leggendario bandito Giuliano, interpellato, garantì che la mafia non c’entrava: «Noi i bambini non li tocchiamo», disse al padre disperato.

La svolta arrivò solo il 29 giugno 1947, quando un passo falso di uno dei rapitori permise alla polizia di risalire all’intera banda. Durante l’arresto, uno di loro sbottò in dialetto: «Pi nu verme di terra, tuttu stu schifiu facistivu» (“Per un verme di terra avete combinato tutto questo schifo”). Il corpo di Alfredino, o quel che ne restava, fu finalmente ritrovato. Due dei sequestratori furono condannati all’ergastolo, il terzo a trent’anni. Come ricorda Genovese, la comunità chiese invano che la fucilazione avvenisse in piazza, sul luogo del delitto.

Due dei colpevoli furono condannati all’ergastolo, il terzo a trent’anni. La sorella Maria, che all’epoca aveva tredici anni, ha raccontato più volte come quelle notti di attesa, seguite da mesi di silenzi e false speranze, abbiano segnato per sempre la sua vita.


Il notaio Garrasi e il riscatto record (1977)

Trent’anni dopo, nel 1977, un altro episodio scosse la città: il sequestro del notaio Giambattista Garrasi, facoltoso professionista vittoriese. A organizzarlo fu il bandito Giuseppe Sansone, che, dopo aver guidato una sommossa nel carcere di Augusta, rapì Garrasi con una banda di complici. Il notaio fu liberato a Salerno dopo 50 giorni di prigionia, grazie anche alla mediazione di mons. Giuseppe Calì, solo dopo il pagamento di un riscatto di 400 milioni di lire.


Il tentativo contro Giuseppe Gambina (1973)

Pochi anni prima, nel 1973, ci fu anche un tentativo di sequestro ai danni di Giuseppe Gambina, oggi proprietario del cinema Golden. Allora dodicenne, fu preso di mira da tre ragazzi della “Vittoria bene”, che chiesero denaro alla famiglia tramite un telefono a gettoni in via Principe Umberto. L’intervento tempestivo della polizia evitò il peggio.


Una città che non dimentica

La vicenda del 17enne, rapito lunedì sera da quattro uomini armati e poi rilasciato senza richiesta di riscatto, si inserisce in questa memoria collettiva. Il padre del ragazzo, produttore ortofrutticolo, ha raccontato che il figlio è stato legato e tenuto in un casolare, “trattato bene, gli hanno dato da mangiare e da bere”.

Oggi, mentre la Squadra Mobile e il Commissariato di Vittoria lavorano per identificare le due Panda e risalire al gruppo, i vittoriesi tornano a interrogarsi su una lunga scia di rapimenti che ha attraversato i decenni. Un passato che sembrava lontano ma che l’episodio di questi giorni, seppur concluso senza tragedia, ha fatto riemergere con forza.

Nella foto la copertina del libro di Genovese.

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it