Il Covid e la solitudine: “Non abbiate paura di contattare i vostri Sacerdoti”. Intervista a Don Salvatore Vaccaro, parroco di Chiaramonte

Chiaramonte è un piccolo centro di circa ottomila anime. E come Chiaramonte, sono tanti i paesi che, purtroppo, vivono il dramma della Pandemia. Chiaramonte non è una grande città e non fa parte di una grande diocesi come Palermo, Catania o Roma. I problemi di un piccolo centro sono diversi rispetto a quelli delle grandi città, flagellate anche loro dal Covid. Non solo problemi economici: se durante la prima ondata della pandemia, ovvero quella di marzo, quando la chiusura è stata pressoché totale, il problema principale riscontrato da tutte le parrocchie è stato quello economico, oggi la situazione è leggermente diversa: “Ci sono ancora tante famiglie che hanno bisogno di un supporto per poter fare la spesa, ma c’è anche vergogna nel dichiararsi positivo”, ci spiega Don Salvatore, parroco di Chiaramonte Gulfi.

Padre Salvatore, quali sono le difficoltà principali che avete riscontrato durante la pandemia?
“Vorrei distinguere due momenti. L’inizio della pandemia, ovvero il periodo relativo al mese di marzo, e la seconda ondata, cioè il momento storico che stiamo vivendo adesso. Durante la prima ondata, devo dirlo, si era molto più seri. Eravamo tutti chiusi. In quella fase, il problema economico è stato certamente il più rilevante. A Chiaramonte abbiamo da diversi anni una realtà importantissima, il Banco Alimentare. Siamo stati in grado di mantenere gli aiuti alimentari che ci vengono distribuiti tramite la nostra sede centrale di Catania, anche quando erano tutti chiusi. Io, personalmente, ho insistito affinchè non venisse meno la solidarietà. Grazie alla Protezione Civile e ad altri volontari, siamo riusciti a far avere i pacchi alle famiglie. Devo dire che è stata una collaborazione ottima. In 15 giorni abbiamo distribuito 80 pacchi, quindi 80 famiglie, quasi 300 persone, a Chiaramonte”.

Dunque, a Chiaramonte esistono famiglie che hanno un reale bisogno economico….
“Noi distribuiamo sempre a 65 famiglie, cioè 220 persone. Alcuni sono non residenti a Chiaramonte, solo dimoranti, quindi durante la pandemia il numero si è alzato. Ma ciò che vorrei far notare è questo: a Pasqua abbiamo distribuito le uova di cioccolato: immaginate la gioia dei bambini. Ecco, quello che vorrei far notare è che non si distribuiscono solo generi di prima necessità, ma anche le nostre gioie perché noi dobbiamo pensare alle famiglie in difficoltà proprio come se fossero le nostre”.

Qual è, secondo lei, il problema principale che c’è oggi a Chiaramonte in relazione alla pandemia?
“L’incuria verso gli altri. Si è venuto a creare un meccanismo strano. Non essendo tutto chiuso, ci si può muovere più o meno liberamente. Ciò significa che chi lavora in nero, chi non ha un’entrata fissa e ha esigenza di sbarcare il lunario, non potendo giustificare economicamente la propria posizione e quindi non potendo usufruire di eventuali aiuti e bonus, va a lavorare anche se sospetta di essere positivo. Durante la prima fase, invece, questo non era possibile: si era chiusi e basta, c’era più paura. Ora, invece, si ha solo paura di avere problemi economici e non si pensa a salvaguardare la salute ma non si comprende che senza salute non si va da nessuna parte. Anche coloro che stanno aperti, in realtà, lavorano poco, guadagnano poco e sono più esposti al virus”.

Secondo lei, quale sarebbe la soluzione?
“La chiusura totale per almeno tutto questo periodo, in modo da poter riaprire, almeno, a Natale”.

E’ una posizione molto drastica, che potrebbe essere criticabile…

“So che cosa pensate, perchè la frase che mi sento sempre dire è questa: “Tanto lei non ci rimette niente…”. Non è vero che la Chiesa non ci rimette nulla per il semplice fatto che noi viviamo delle offerte dei fedeli. Proprio come tutte le famiglie, la chiesa paga la luce, il gas, il telefono, la pulizia, la sanificazione. E la chiesa non usufruisce di bonus o redditi di cittadinanza. Quando si celebra la messa, anche se per cinque persone, si deve subito sanificare tutto. Ci sono le tasse statali, quelle comunali. Siamo esattamente, né più né meno, proprio come tutti gli altri”.

Quali sono i principali rischi che corre un Sacerdote?
“In questi giorni la morte di due Sacerdoti ha scosso tantissimo la comunità provinciale. Secondo la mia opinione, il rischio si corre con l’incoscienza della gente. Faccio un esempio: poco tempo fa è venuta in chiesa una fedele durante la messa. Era palesemente raffreddata, aveva colpi di tosse e starnutiva. Sicuramente era un banale raffreddore ma io mi chiedo: era proprio necessario venire a messa? Per sicurezza, se uno non si sente bene, può anche rimanere a casa, non succede nulla. Queste sono piccole cose che però andrebbero evitate. Insieme a Don Filippo Bella, anche prima che arrivasse l’invito ufficiale della CEI, abbiamo sospeso la catechesi e le riunioni di gruppo proprio per evitare veicoli di contagio. Oggi, ci incontriamo, certo, ma sulle piattaforme digitali”.

Per la sua esperienza, come vivono i positivi questo periodo di isolamento a casa?
“C’è vergogna e diffidenza a dire di essere positivi o in quarantena. Non lo dicono esplicitamente, ma lo si percepisce. La questione economica c’è, ed è importante. Ma i positivi, o i malati covid, difficilmente dicono che lo sono e nessuno ha chiamato per parlare con il Sacerdote, per trovare conforto, per sfogarsi, per avere un conforto spirituale. Esiste internet, esiste il telefono, whatsapp: quando ci si trova da soli, non si ha nessuno e quindi si è isolati, chiamateci anche per un conforto spirituale. Se non ci può esser un incontro fisico, il conforto spirituale è importante. Non abbiate paura di contattare i vostri Sacerdoti, per qualunque cosa. Possiamo dare una mano concretamente, anche per portare la spesa se c’è bisogno. Sappiamo che ci sono tanti modi per sentirsi soli e uno dei drammi del Covid è questo: la mancanza degli affetti. Perché dietro la mascherina, purtroppo, il sorriso non si vede”.

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