GUYA: OVVERO LA MUSICA IMPRENDITRICE DI SE STESSA.

C’è stato un tempo in cui la cultura – che non ha mai potuto autofinanziarsi – era presa in carico dalle pubbliche amministrazioni, dallo stato ai comuni, il cui compito è anche quello di promuovere la crescita della cittadinanza e non solo quello di proporre eventi e contenuti che la cittadinanza chiede, qui e ora. Se la logica che ispira le politiche culturali fosse stata allora  – come oggi  sembra sia diventata – quella di riprodurre la domanda popolare, non ci saremmo schiodati da Claudio Baglioni e da Eros Ramazzotti (per dirla ottimisticamente…). Quando invece, per alcuni decenni, abbiamo avuto festival di jazz disseminati nel paese, con un ritorno culturale straordinario, a tutti i livelli: basti pensare alla fioritura di talenti che l’Italia ha prodotto negli ultimi dieci anni, frutto di quella lunga stagione di semina.

Quando il pubblico arretra il privato avanza. Solo che in un ambito come la musica improvvisata il privato non è particolarmente interessato: circolano numeri esigui, non si riempiono stadi o arene. Si può puntare sul grosso nome italiano, non certo sulle nuove leve, meno che mai sui grossi artisti internazionali, per i quali crescono le spese e dunque i rischi.

E così abbiamo molti meno festival,  quelli rimasti hanno ridotto e di molto la loro offerta musicale, nomi internazionali ne girano pochi e si fa sempre meno promozione culturale. Anche perché – come si sa – con la cultura non si mangia!

La congiuntura economica è quella che sappiamo: lo smantellamento dello stato sociale, la consegna sostanziale dei diritti di cittadinanza a soggetti privati il cui fine è quello di incrementare il profitto, la definitiva polverizzazione dei processi di aggregazione che non siano quelli “politicamente” utili a un qualche ritorno elettorale, la cultura regredita da settore trainante a settore trainato.

Tutto ciò, mentre nel resto dell’Europa che conta non si è mai smesso di investire nella crescita culturale, nella ricchezza della cultura, nei suoi frutti  diretti e indiretti.

In un panorama tanto triste, gli artisti devono muoversi affinando oltre al loro talento musicale anche le loro doti “imprenditoriali”. Perché si tratta di creare una rete facilitante, trovare sponsors disposti a investire se non in vista di un guadagno almeno di un arricchimento dell’immagine, tentare comunque il sostegno della pubblica amministrazione. E, soprattutto, generare curiosità, tensione intorno al loro lavoro. Che – ricordiamolo – è il più bello del mondo: la parola inglese to play sta per “giocare” e anche per “suonare”!

Di Giacomo Caruso abbiamo già parlato nell’occasione di un suo concerto a Casa Ciomod, la scorsa estate. Lo rifacciamo ora, dopo alcuni mesi, durante i quali questo delizioso musicista – 24 anni d’età! – ha letteralmente inventato e implementato una reta associativa internazionale, la Global Union of Young Artists, la cui mission è quella di favorire lo sviluppo e la promozione della cultura giovanile, al momento partendo da quella musicale jazzistica, sostenendo ogni giovane artista che ne faccia parte, promuovendo artisticamente e culturalmente il territorio, proponendo iniziative e programmi concertistici itineranti con giovani talenti di tutti i continenti.

Localmente, Giacomo si è finora prodotto in alcuni concerti suoi ma ha anche proposto nomi interessanti di questo giovane e promettente vivaio di talenti, come il chitarrista olandese Daan Klejn e il pianista, anch’egli olandese, Sander Thijsen.  Nella coraggiosa cordata si è inserito anche un appassionato cultore del jazz, Salvo Alberghina, che nella sua Caltagirone ha messo su un jazz club come a Ragusa non siamo mai riusciti ad avere (e lo desideriamo da decenni!). Ma anche la Società Operaia di Mutuo Soccorso, a Modica, ha fatto la sua parte ospitando i primi concerti programmati.

Si aprono vasti spazi di possibilità per questa Associazione: chiunque abbia un po’ di sale in zucca capisce che questa è materia preziosa da non sottovalutare, per la ricaduta immediata che può offrire in termini di caratterizzazione culturale del territorio (leggi “turismo culturale”)  ma anche – e soprattutto – in termini di “pedagogia” sociale (il termine è brutto, lo so!): chiunque vede e ascolta Giacomo non può non pensare che è il figlio che tutti i cinquantenni, cresciuti nel ventre accogliente della cultura come bene pubblico, vorrebbero avere.

 

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