ARTURO BARBANTE VISTO DA…

Vive a Vittoria, dove è nato nel 1944 e dove ha insegnato Disegno e Storia dell’Arte negli Istituti medi superiori.

Si è occupato di tradizioni popolari e di folklore, anche a fini di promozione turistica. Sue sono le realizzazioni del Corteo di Re Cucco a Scoglitti e il Presepe monumentale notturno nel centro storico a Vittoria.

Per diversi anni, nella qualità di Consulente culturale della sua città, ha allestito mostre tematiche sulle tradizioni, usi e costumi, sul lavoro, su avvenimenti storici, sul patrimonio artistico della città, sulle feste religiose, e sulla storia della città di Vittoria.

Ha curato costumi e scenografie della Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, che si tiene ogni anno a Vittoria in occasione della Pasqua.

Suo è il manifesto del 2013 per Notti al Castello – Donnafugata.

Si è formato presso il Liceo Artistico di Palermo e frequentato le Accademie di BB.AA. di Roma e di Brera. Nella Città di Bergamo ha esposto in diverse mostre collettive e allacciato rapporti d’amicizia con gli artisti del panorama lombardo. Nel 1969 allestisce presso la “Galleria Alexandria” di Alessandria una delle prime personali di successo.Nel1972 è a Palermo “Ai Fiori Chiari”. In provincia vanno segnalate le sue mostre personali alla “Galleria Nuova Figurazione” di Ragusa, alla “Galleria degli Archi” di Comiso e alla “Galleria “Koinè” di Scicli.

Tra le mostre collettive,” Tendenze” a Ragusa Ibla, a cura di Francesco Gallo, “Il canto della terra” a Gibellina a cura di Aurelio Pes, “Orme” alle Ciminiere di Catania a cura di Angelo Scandurra,” Artfair in Opencity” – Palazzo dei Congressi Roma,” I muri dopo Berlino” – Spazio Tadini Milano,” Visioni” dall’arte contemporanea” – Complesso dei Dioscuri a Roma e Castello di Donnafugata a Ragusa, a cura di Amedeo Fusco e Rosario Sprovieri.

 

 

DALL’AVERE ALL’ESSERE

Davanti alle opere di Arturo Barbante il primo impulso è quello di dichiararne la contiguità con l’arte pop americana degli anni ’60. Claes Oldemburg e Andy Warhol sono i primi nomi che vengono in mente, soprattutto per le opere che hanno per oggetto il cibo, le bottiglie, le pietanze, le scarpe. E, per la verità, se si fa riferimento soltanto al dato oggettivo delle cose rappresentate il richiamo è, direi, obbligato e inevitabile nella pagina di un critico militante, avvezzo a stabilire appartenenze e disporre catalogazioni. Ma, chiudere il nostro in questo recinto sarebbe una diminutio. E’ altro il recinto antropologico e filosofico di appartenenza. Barbante viene dalla terra di Gorgia da Lentini, dalla Magna Grecia, e Kamarina, “abitata dopo molta fatica” (Strabone), è lì, a ridosso dell’Ippari, come faro, sul mare della nostra giovinezza, sua e mia. Questo dato geografico e biografico è alla base del felice “tradimento”, che Barbante opera in “danno” della creatura americana. Oldemburg e Warhol sono figli di una civiltà segnata dall’egemonia di un pensiero totalitario, che tutto assoggetta alla necessità utilitaristica di espansione indefinita di bisogni e consumi, funzionale alla produzione industriale, indirizzo che va sotto il nome di consumismo, di cui oggi scontiamo le conseguenze.  Per questo Le immagini della pop americana hanno l’impersonale, fredda “bellezza” plastificata della pubblicità, che mira a sottrarre pensiero, perché il suo fine è il condizionamento, la massificazione: il contrario dell’esercizio del pensare, che è manifestazione della singolarità. C’è nell’arte pop americana una resa incondizionata all’esistente. Il mondo è questo: il mare di beni da possedere – ci dicono gli artisti pop d’oltreoceano.

Da qui il colore freddo, la staticità e la serialità della loro rappresentazione.

In Barbante la pittura non è filiazione della visione mercantile. L’artista ibleo ha, sì, attinto a un certo immaginario, comune alla pop, ma per affermare un diverso sentimento, un diverso assunto. Stoviglie, bicchieri, bottiglie, pani, piatti con cibo fumante sono lì, sulla tavola imbandita, come componenti di un rito antico, a un tempo sacro e profano, generato dal culto della convivialità, dal sentimento di religioso rispetto del cibo, vissuto dalle generazioni non toccate dalla devastazione antropologica consumista, non come proiezione o esibizione di uno status sociale imposto, ma come esito, dono e benedizione della fatica dell’uomo. La tavola imbandita è nella mente del nostro un momento della socialità e del riposo, del reciproco riconoscimento di chi può dire, a sera: “Ö soir, aimable soir, désiré par celui /dont les bras, sans mentir, peuvent dire: aujourd’hui/ Nous avons travaillé! C’est le soir qui soulage…” (Baudelaire). Il cibo delle opere di Barbante non è il cibo plastificato del fast food. Il suo è un cibo succulento, mediterraneo, colorato, profumato, il cibo di Omero, di Ulisse, di Penelope prima d’esser preda dei Proci, di Laerte e della nutrice, della convivialità, della civiltà dell’accoglienza e dell’ascolto dell’altro, nel segno del comune destino, della centralità dell’uomo misura di tutte le cose. Gli stessi avanzi di un banchetto, una tantum sovrabbondante, sulla tavola in disordine sono lì a evidenza, non della civiltà dello spreco, quanto di una trasgressione salutare, compensativa dopo giorni e ore di fatica e patimento. E anche le scarpe sportive, che pure figurano nelle sue tele, unico segno di un benessere sopravvenuto, sono le scarpe, usate, della deambulazione tra gli uomini, della “rêverie” nella natura, non dell’apparenza, dell’esibizione dell’avere, della serialità pop.

Ma, la narrazione di Barbante abbraccia anche altre situazioni e altre figure della quotidianità, che vivono nella sua memoria e si proiettano nel presente: il vincitore di un palio della civiltà contadina, i giocatori di carte impegnati nella strategia del gioco, in omaggio a Cézanne, i bagnanti nella spiaggia assolata, gli atleti agili e scattanti, e i diseredati della terra, gli ultimi del consorzio umano, portati dalle onde del mare ibleo e oggetto della sua pietas.  Questa materia umana non fa parte del campionario pop perché non si presta alla narrazione impersonale di quegli artisti americani, cui si vuol fare riferimento.

 

A sostegno, infine, di questa lettura dell’opera di Barbante, narratore avveduto e vigoroso in virtù del suo retroterra culturale, sta il suo segno scattante e rapido, manifestazione di una personale partecipazione umorale alla materia del suo racconto, insieme con un uso del colore carico di energia eruttiva e dinamismo: elementi, questi, che fanno di Barbante un pittore della realtà, non realista (Giovanni Stella).

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