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A PALERMO PER MORIRE. I CENTO GIORNI CHE CONDANNARONO IL GENERALE DALLA CHIESA
09 Nov 2012 20:23
In occasione del trentennale dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo, si ripercorrono gli eventi che hanno condotto al drammatico epilogo grazie alle pagine di un libro. “A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa”, scritto da Luciano Mirone, è stato presentato questo pomeriggio presso i locali del City a Ragusa. All’evento, assieme all’autore, presenti anche Angelo Dinatale giornalista Rai e Nello Veloce organizzatore della presentazione.
Il libro, attraverso il racconto dei cento giorni trascorsi in Sicilia come prefetto dal generale Dalla Chiesa e l’analisi del contesto politico in cui maturò il delitto, tenta di fare luce sui misteri della strage di via Isidoro Carini del 3 settembre 1982. Il processo sull’assassinio del generale, infatti, ha condannato soltanto il primo livello di Cosa nostra, l’ala militare, quella che ha commesso materialmente il crimine, senza addentrarsi su eventuali «mandanti esterni» che stanno dietro ai delitti eccellenti di quegli anni.
Attraverso gli atti processuali e testimonianze inedite si delineano i probabili moventi sull’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa che venne spedito a Palermo per contrastare la mafia senza avere i poteri necessari. Nel libro il giornalista e storico Luciano Mirone, direttore del mensile “L’informazione”, mette insieme i pezzi di un complesso mosaico che dal cuore della Sicilia porta nelle segrete stanze del potere italiano. Un unico «filo nero» che si districa dagli anni Settanta alla stagione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e che vede coinvolte costantemente le stesse entità: mafia, politica, alta finanza, servizi segreti deviati e massoneria. Nella ricostruzione molti elementi apparentemente distanti trovano una logica, che ha come punto di convergenza proprio la morte di Carlo Alberto dalla Chiesa. Dai rapporti intercorsi tra Giulio Andreotti e i politici siciliani collusi con Cosa nostra, alla scomparsa di Mino Pecorelli e la figura di Licio Gelli.
Il testo si avvale delle interviste che l’autore ha realizzato con Nando dalla Chiesa, Francesco Accordino, Giuseppe Ayala, Gian Carlo Caselli, Alfredo Galasso, Riccardo Orioles, Umberto Santino e tante altre autorevoli personalità del mondo della politica, della magistratura, del giornalismo, le quali, oltre a ricordare la figura dell’ufficiale, tirano le fila sui motivi che portarono alla sua eliminazione.
“Si trattò di un punto di svolta per la mafia” – spiega Luciano Mirone – “ l’apice della strategia dei delitti politico-mafiosi, in quanto venne colpita una alta carica dello Stato. Ma, parallelamente, anche per l’antimafia, perché da quel momento inizierà una presa di consapevolezza della sfida ed una reazione legislativa finalmente all’altezza, stante la successiva ed immediata approvazione della legge Rognoni-La Torre, che introdusse i primi veri strumenti normativi contro la mafia. Su un piano politico e sociale, invece, segnò un momento di forte riscatto da parte della comunità palermitana” – continua lo scrittore – “che diede origine alla celeberrima Primavera, che ebbe una notevole incidenza sulla realtà gettando i semi della nascita del Pool Antimafia e del successivo Maxiprocesso. In effetti, da quel momento in poi sia la mafia che l’antimafia non sarebbero più state le stesse rispetto al passato. La società civile iniziò, finalmente, a comprendere la reale portata del fenomeno criminale, facendo sentire per la prima volta la propria voce e rifiutando un sistema di illegalità e di violenza che aveva determinato solo squallore e morte sulle strade di Palermo. Venne” – conclude Mirone – “così, avviato un processo di identificazione morale ed etica verso quei valorosi uomini delle istituzioni che combattevano con tutte le loro energie e con intransigenza il fenomeno criminale nel suo complesso, baluardi di una giustizia e di una legalità spesso violentata impunemente”.
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