Cappuccetto Rosso era di Marina di Ragusa?

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola.

Quando i giovanissimi di oggi (i centennials) mi chiedono perché quelli come me (boomer) hanno poche idee (politiche, sociali, intellettuali, sentimentali ecc.), ma ben confuse sul mondo, io rispondo che quelli della generazione mia (e dei nostri genitori) siamo i figli di “Cappuccetto Rosso”. 

Ricorderete la soave fiaba (nella inimitabile versione dei fratelli Grimm), che molti dei nostri genitori e nonni ci snocciolavano per consegnarci placidamente alle braccia amorevoli del sonno. Ebbene. Asserire che “Cappuccetto Rosso” è una favola per bambini sarebbe come dire che “Shining” di Stanley Kubrick è la biografia romantica di un’ascia rossa.  

Alcuni passaggi mi fanno trasalire ancora nel cuore della notte: la bambina decide di inoltrarsi in un tetrissimo bosco da sola per portare un adso di paniere ad un adso di nonna. Viene ingannata da un adso di lupo nel più adso dei modi. E già questo apre dubbi sull’assetto cognitivo di questa bambina (ma insinuare non è lecito e politicamente scorretto). La tipa staziona per ore a tre centimetri da una bestia pelosa, dentosa, orecchiosa, ma neppure l’alito nauseabondo le fa pensare ad uno scambio di persona (nel regno animale) e rimane pervicacemente nel dubbio appena accennato sulla identità della nonna, in ragione dell’inconfondibile cuffietta dell’amata vecchietta.

Mi chiedo: ma che adso di malattia aberrante poteva aver colpito questo adso di nonna per ridurla in questo stato? O che razza di alitosi poteva affliggere la nonna normalmente?

CAPPUCCETTO ROSSO, RILETTURA DI UNA FIABA

Ma la vera violenza del racconto riposa nella pretesa che l’inerme e attonito bimbo accasciato sul letto (ciascuno di noi, nipoti o figli dello scorso millennio), che intanto è irrimediabilmente condannato già a una notte insonne di pura tenebra, deve accettare integralmente la trama senza alludere minimamente a un ritardo cognitivo (anche lieve della nostra Cappuccetto).

Il finale lieto è noto: dopo essere state sbranate dal lupo a suo modo genialoide, vengono restituite intatte al mondo (perché poi? Mi domando io) grazie al gentile intervento del fatidico cacciatore (i cacciatori non si fanno mai gli adsi loro). Che, nei dettagli, squarta la bestia zampillante (rovistando, si deduce, tra i visceri sanguinolenti).

I dettagli sottilmente macabri della storiella, non disgiunti da quelli drammaticamente imbecilli, fanno di questa liturgia del racconto di una favola, il primo e imperdonabile imbroglio (intellettuale e pedagogico) all’infanzia mai perpetrato. 

Un’idea del genere non sarebbe mai potuta nascere all’ombra della chiesa di San Giorgio. O tra le panchine di piazza Duca degli Abruzzi. La nostra atavica immaginazione è popolata di giganti e fate, furbi e sciocchini, zafferano e fichi, contadini e maghi, giardini e fontane incantati nelle voci di quell’aspra dolcezza di nonne antiche. Che non si spaccerebbero mai per un lupo. Neanche sotto gli autentici baffi.  

Vi risparmio altri dilemmi sui quali potremmo sbizzarrirci in altra sede: perché, ad esempio, una fanciulla deve convivere con sette nani? Proprio sette? E proprio nani? Oppure: una donna che non riesce a prendere sonno per la presenza di un pisello sommerso da venti (dico venti) materassi, è una vera principessa o è semplicemente una isterica insonne cronica?

Non vado oltre. Dico a quei giovani di cui sopra, che noi cinquantenni, dopo aver subito psicologicamente certe cose, siamo stati fortunati ad essere solo un po’ disorientati (come Adso da Melk tra i meandri e cunicoli di un labirinto medievale). Sarebbe potuta andare infatti molto peggio. Invece di scrivere, come me, articoli demenziali sul web alle 6.00 del mattino, potremmo andare in giro per la città armati di un’ascia rossa.

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