Squid Game, violenza in tv e bambini: allarme giustificato?

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola
“Houston … ! Qui Ragusa.”

Il fenomeno del momento. Un successo planetario. Un dibattito globale. “Squid Game” ha battuto ogni record. Di spettatori e di polemiche.
La serie televisiva coreana, trasmessa su Netflix, in lingua originale con i sottotitoli, è sconsigliata a chi ha meno di 14 anni, ma è amatissima anche da bambini (e bambine) e da preadolescenti, che, se non integralmente nella piattaforma, l’hanno intercettata diffusamente nei video o nei giochi nel Web, in barba ai “divieti” presunti o reali degli adulti.

La trama della serie è spietata e, in tal senso, coinvolgente, quando non “avvincente”. Alcune persone povere, emarginate e reiette, disperate e diversamente problematiche vengono coinvolte in una sfida di giochi tipici dell’infanzia (su tutti, 1, 2, 3, stella). In palio notevolissimi premi in denaro. E però, se sconfitti, i partecipanti vengono immediatamente uccisi. L’errore nel gioco infatti è punito senza misericordia con la morte più feroce per mano di bambole giganti. La violenza della serie è visivamente molto esplicita. Il sangue schizza ovunque a fiotti. E a partecipare al gioco misterioso sono centinaia di persone disposte a rischiare la vita per poter vincere milioni di euro. Nel sulfureo canovaccio, i partecipanti sono tutti indebitati e non hanno quasi nulla da perdere.

In verità, la serie vorrebbe anche denunciare le diseguaglianze sociali che in Corea del Sud attanagliano molte persone, in una società nella quale i ricchi sono nella posizione di sopraffare a piacimento i poveri. E inoltre, prima di sfidarsi con gli altri, i protagonisti devono confrontarsi con se stessi e superare i propri limiti. In una lotta per la sopravvivenza, in seno alla quale il valore dell’amicizia è comunque in evidenza.

Molti miei colleghi, critici, denunciano anche pubblicamente i pericoli, i gravi rischi e le insidie sottili che si nasconderebbero dietro la serie tv del momento, una serie che fa molto discutere, soprattutto per le conseguenze che potrebbe avere sui più piccoli. A parere di alcuni specialisti, la mente dei bambini e dei preadolescenti non è in grado di gestire la complessità di alcune esperienze e non ha le competenze emotive e cognitive propedeutiche alla loro rielaborazione e integrazione interna. Al punto che la visione dei contenuti della serie rischierebbe di risultare traumatizzante. La mente dei bambini e dei preadolescenti non sarebbe in grado di interpretare e metabolizzare le immagini e i messaggi della serie.

A questo si aggiunge il fenomeno “emulazione”. In un comune del Belgio, una scuola è stata inondata dalle polemiche a causa di bambini emulatori di Squid Game. Una mamma ha denunciato le violenze subite dalla figlia mentre giocava con gli amici a 1, 2, 3 stella, ma con la “variante Squid Game”: chi veniva visto muoversi da chi contava, riceveva uno schiaffone. In altre scuole, anche in Italia, durante la ricreazione, alcuni insegnanti avrebbero visto giocare a 1, 2, 3, stella, simulando la squalifica dei compagni con il gesto della pistola.
Trauma ed emulazione?

Io non la vedo così. Ancora una volta sottovalutiamo le risorse dei bambini. E, a mio avviso, è un errore imperdonabile
I rischi non sono dominanti e non giustificano un allarmismo (che rischia di essere fuori fuoco). Noi osservatori non cogliamo una grande opportunità: guardare i bambini senza sottovalutarli. Ascoltarli senza costringerli nelle nostre parole anguste di bambini cresciuti (forse male).
Il trauma? La rappresentazione così esplicita e persino caricaturale della violenza è onesta, trasparente, leale e riconoscibile. E consente al bambino di decodificare e di difendersi, restituendola alla giusta e più rassicurante dimensione ludica, nel lessico proprio della finzione e della fantasia (e a tratti del videogioco, non a caso, talora più violento della serie in questione).
Forse non siamo in grado di capire sino in fondo questo concetto basilare, perché siamo cresciuti, per fare solo un esempio, sulle note della sigla di “Dolce Remì” una delle serie più “feroci” e “perfide” mai trasmesse dalla tv. Nella quale la narrazione, intessuta di una violenza sottile e nascosta (tra risonanze soavi e a tratti giocose), non era facilmente e linearmente riconoscibile. E così non concedeva a noi piccoli inermi, attoniti e disorientati, la possibilità di una resistenza e di un’opposizione.

L’emulazione? I bambini sono portati ad imitare, ma non sono spugne pronte ad assimilare tutto quello che gli venga propinato per poi ripeterlo supinamente e pedissequamente. Al contrario, destrutturano attivamente, ristrutturano creativamente e personalizzano in modo originale (e più innocuo) nel codice del gruppo.
“Squid Game” e i bambini, noi adulti dovremmo parlarne insieme a loro, discutere dei valori che persino una serie del genere vorrebbe trasmettere, ribadendo la sua natura di fiction e spiegando che alcuni valori potrebbero essere rappresentati anche in un altro modo. Dovremmo ascoltarli, mostrando curiosità riguardo alla natura delle emozioni o motivazioni che la serie ha suscitato in loro. Infine, potremmo persino rimanere sorpresi e meravigliati.

Insomma, la polemica, dai toni così accesi, mi sembra poco centrata e strumentale, perché ancora una volta vorrebbe offrire un alibi al mondo, a tratti assente o distratto, degli adulti giudicanti. I bambini spesso guardano da soli, come davanti allo smartphone. E a volte vengono lasciati soli, in un inverno emotivo che è più gelido e sferzante delle serie tv horror mai concepite. Perché in fondo i bambini trovano soprattutto nella relazione sana la casa delle risposte più rassicuranti (anche alle domande più violente). E la relazione sana è il gioco più avvincente di sempre.

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it