QUANDO MARINA RIDIVENTA MAZZAREDDI

Mi piace quando Marina di Ragusa ridiventa Mazzareddi. Anzi, addirittura, oso affermare che Essa mi piace più nella sua ombrosità invernale che non nella “movidica” espressione estiva. In ogni caso, non rientra per nulla tra le mie preferenze da bagnante, che svettino o meno bandiere blu sull’arenile residuo (gramo, in effetti). La cosa è ben diversa in inverno, allorquando vengono riposte nel cassetto le pretenziosità balneari. Non voglio dire che Marina sia brutta, ma sollevare il dubbio che la si sarebbe potuta curare meglio nel corso dei decenni. In ogni caso Settembre, appena dopo o subito prima l’appuntamento fisso dell’Addio all’Estate (i fuochi d’artificio, da sempre attrattiva irrinunciabile per tutti i residenti della fu provincia), è il momento migliore per poter godere delle piacevoli amenità della località rivierasca.

Si intraprenda la passeggiata dalla spiaggia, con partenza nei pressi dell’area adibita a parco giochi nell’apice agostano, e si giunga sino allo scalo trapenese, inframmezzando il passo tra la sabbia e il lungomare, cercando di individuare – anche solo idealmente – tutte quelle piccole insenature che possano render merito all’etimologia del toponimo risalente agli emirati siciliani. Non resta molto, ma le idee bastano, se la ragione è prerogativa umana. Certo, dalla più popolare piazza Malta all’aristocratica Piazza Duca degli Abruzzi (la distinzione si impose sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, perlomeno tra noi provinciali sciclitani), la ragione talvolta si ribella. Specie presso quest’ultima piazza, che aristocratica non dovrebbe esserlo in ragione di un ricordo ormai di pochi, ossia di quando era simbolo di Mazzareddi stessa come borgo di pescatori. E se questo articolo è dominato dalle volontarie inclinazioni alla preferenza tra ciò che mi piace o meno, oso ancora una volta e mi spingo sino alle parole fuori misura: il restyling di piazza Duca (come dicono i giovani oggi) non mi piace per nulla. Non che sia per forza brutta, ma piuttosto inutile laddove già era gradevole ciò che preesisteva, e un significato chiaro lo si rinveniva, cercandolo nel “simbolo” di cui dicevo prima, posto a raffronto nel contesto storico ed economico dell’intera (fu) provincia.

Non tutte le località costiere del ragusano profumano di mare. Intendo dire che alcune di esse sono solo la ragione estetica di una affacciarsi verso il mare da parte di una popolazione dedita ai lavori della terra (le tradizioni culinarie, del resto, si fondando sul prodotto agricolo. Vien da chiedersi che ne verrebbe fuori tra un cinquantennio da una tradizione di terziario, da una popolazione catechizzata del tutto nel culto del compiacimento turistico, impegnata solo nella ricettività del forestiero e nel migliore dei casi solo sussidiariamente nelle altre attività che di fatto risulterebbero non altro che “connesse”). Donnalucata, Sampieri, Scoglitti, e sino a pochi anni fa Mazzareddi (o Marina di Ragusa), solo dai loro porticcioli si dipartivano le varcuzze. Forse è da indagare psicologicamente la rinuncia ragusana. Non è certo il porto turistico a riproporre in chiave “moderna” il contatto degli indigeni con il mare. E seppure la vecchia piazza Duca degli Abruzzi fosse ormai ridotta a mera finzione, a causa delle deleterie scelte governative che hanno riguardato la pesca, non mi sento di chiamarla diversamente nella nuova veste architettonica. Una finzione, quella nuova, che certamente è funzionale all’immagine di un luogo in cui si punta sulla movida, sulla vita notturna, e sull’aspetto godereccio da party continuo. Non voglio valutare la bontà di una tale prospettiva, poiché non mi riguarda (per quanto aggiungerei che una sintesi diversa era da perseguire). Piuttosto ritorno al rilievo estetico: era veramente necessario cambiare quella storica piazza? Così non mi resta che cercare una vecchia foto, a corredo di questo articolo un po’ malinconico, funzionale a una mite passeggiata (come la consiglierebbe Bobbio) lungo le vie di un luogo piacevole, senza pretendere che esse siano diverse da ciò che sono diventate, accettandole per come sono divenute irrimediabilmente.

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