L’EGITTO IN FIAMME NECESSITA ANCORA DI OTTOMANESIMO

L’Egitto è in fiamme. Questa terra mitica, culla della civiltà faraonica e del monoteismo originario, dalla quale Mosè si allontanò per seguire il suo Yahweh nel Sinai e nella terra promessa, soffre ancora le calamità bibliche rigurgitando il sangue dei suoi martiri ebbri di rivoluzione. Una rivoluzione tradita che, sebbene contestualizzata diversamente, ricorda sempre più quella del film di Sergio Leone, “Giù la testa”, espressa nelle parole del bandito Miranda, il quale durante un dialogo, dice:

« Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono:

Qui ci vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento.

E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano,

parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti!

Ecco la tua rivoluzione!

Per favore, non parlarmi più di rivoluzioni! »

 

Una notizia dell’ultima ora è quella del ritorno dell’ex Presidente Hosni Mubarak, mentre Morsi, leader degli Ihwān al-Muslimūn, ovvero i Fratelli musulmani e trionfatore alle elezioni dell’anno scorso rimane in carcere.

Un dietro front inaspettato, in altre parole, come se il vento primaverile di speranza e di innovazione politica che soffiava in Piazza Tahrir appena due anni or sono, avesse esaurito la sua forza propulsiva lasciando affiorare  un Ancien Régime che covava sotto la cenere. Analogo, del resto, è stato l’epilogo anche in Tunisia: sembra che si stesse meglio quando si stava peggio. Per non parlare della Libia dove non pochi rimpiangono Gheddafi. Il tutto ovviamente, in concomitanza con il plauso o l’indignazione da parte della stampa occidentale, pronta ad analizzare gli eventi attraverso la solita lente distorta dell’esportazione della democrazia.

Il premier turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che dietro al colpo di stato in Egitto c’è Israele e di possederne le prove[1]. Mentre fra i golpisti, secondo altre fonti, ci sarebbero anche Sauditi, Emirati Arabi, Giordani e Kuwaitiani, oltre a Stati Uniti. Quanto alla UE, ammutolita, osserva le stragi. Come se la strategia sottesa fosse, ieri ed oggi, quella coloniale del “divide et impera[2].

Per alcuni anni si è parlato di un “modello turco” per il Medioriente. La politica dello “Zero problemi con i vicini” del Ministro degli Esteri della Turchia, Ahmet Davutoğlu, poi arrestatasi. Piazza Taksim può divenire un esempio per Piazza Tahrir?

Sarebbe un’ipotesi veramente tanto peregrina? L’eredità turca in Egitto è forte ed ubiquitaria, nella lingua, nella cultura, nell’architettura. Ma certo non troppo benvista dai Fratelli musulmani, fondati nel 1928 da Hasan al-Bannā, non a caso, poco più d’un decennio dopo il collasso dell’Impero Ottomano. Non a caso perché la dinamica ricorda la genesi del movimento salafita. Dalla voce araba salaf, “antenato”, da tradursi come “tradizionalismo arabo-islamico”. Un movimento riformista, anch’esso, sorto in Egitto verso la metà del XIX secolo che postulava la rivivificazione della religione islamica attraverso il ritorno alle sue fonti. Non scevro – come già abbiamo avuto modo di scrivere – di collegamenti con il wahhabismo, altra corrente religiosa anteriore ad esso di circa un secolo e nata come reazione all’autorità costituita dall’Impero Ottomano nei confronti del mondo arabo. Entrambi caratterizzati per le loro vedute – che oggi in occidente definiremmo fondamentaliste – radicalmente iconoclaste, anti-sciite e anti-sufi.

Una sorta di corto circuito storico, avendo proprio l’Egitto, posseduto un passato sciita. Infatti, nel 969, una genealogia araba sciita, quella dei Fatimidi, artefici della Moschea di al-Azhar – oggi roccaforte dei Fratelli musulmani – edificata per l’insegnamento dell’Islam nella sua forma ismailita, ovvero sciita settimana[3], conquistò questa terra divenendo una delle più importanti dinastie della storia dell’Islam.

L’Egitto è stato anche la terra di Nasser e del nazionalismo arabo anti-turco e anti-ottomano d’ispirazione inglese. E dal binomio nazionalismo arabo delaicizzato più Islam non può scaturire che il fondamentalismo.

Ricordo qualche decennio fa in occasione di un viaggio nel Paese delle piramidi, nella città di Luxor, uno dei soliti venditori petulanti cambiare completamente tono al mio interloquire in turco anziché in italiano. Ne nacque una disputa sulla storia del Paese e sull’indipendenza dai turchi. Tanto per dire quanto il nazionalismo sia capillarmente diffuso fra la popolazione.

L’Egitto, per inciso, oggi è anche la Hollywood del mondo arabo. Un punto di riferimento culturale.

Tuttavia l’Egitto in passato è stato anche turco e sufi, e non solo parte dell’Impero Ottomano a partire dal XVI secolo, ma ancor prima della Dinastia Fatimide, nel’868, fu un governatorato del turco Ahmad ibn Tūlūn incaricato dal califfo abbaside al-Mu’tazz d’incassare in sua vece i tributi.

L’Egitto conobbe con i Tulunidi un risveglio economico e culturale e la costruzione dell’omonima grande moschea di Ibn Ṭūlūn che ancor oggi ne porta il nome[4].

Quindi fu la terra anche dei Mamelucchi, o in arabo Dawlat al-Atrak, Paese dei Turchi, una dinastia turca originaria del Khwarezm, una miscellanea di qĩpčaq, alani, circassi e centrasiatici, kazaki come si direbbe oggi, erede dell’Impero abbaside. Gli unici che furono in grado di infliggere una sconfitta ai Mongoli, nel 1260, dopo la caduta di Bagdad.    

Questo per dire come svariati secoli della storia del Paese siano stati caratterizzati da una leadership turca. Un’epoca nella quale l’Egitto era un Paese emergente all’interno del mondo musulmano. Un Paese che, nell’epoca moderna, inseguendo le chimere di un nazionalismo avventizio, sia arabo o islamista di matrice wahhabita-salafita, sta vivendo una delle pagine più tragiche della sua storia.   

Forse la Turchia, oggi erede di questo passato, potrebbe essere un modello ispirativo per l’Egitto. Anche prescindendo dal cosiddetto neo-ottomanesimo in senso stretto, essa potrebbe, in virtù della sua influenza storica plurisecolare, esercitare un ascendente capace di veicolare certi principi di “Islam laico” facendoli metabolizzare ad una nazione di 80 milioni di abitanti. Una nazione leader all’interno del mondo arabo. Ma per attuare ciò dovrebbe venire meno proprio quell’arabismo, quel nazionalismo islamizzato su cui essa ha fondato la sua recente consapevolezza e coscienza etnica. 


[1] http://www.zaman.com.tr/ahmet-turan-alkan/israili-gozlemlemeyi-unutma_2121728.html

[2] http://www.zaman.com.tr/huseyin-gulerce/ihvan-ak-parti-ve-hilafet-meselesi-_2121727.html

[3] Albert Hurani, Storia dei Popoli arabi, Milano, 1991, pg. 126.

[4] Jean Paul Roux , Storia dei Turchi, Milano, 1998, pg.108.

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