LEGALITA’ E TRASPARENZA

Parcheggiamo in seconda fila, usiamo il cellulare quando siamo al volante, non rispettiamo le precedenze quando stiamo in fila ad uno sportello, imbrattiamo l’ambiente, ci assentiamo dal lavoro anche se non siamo realmente ammalati, evadiamo le tasse, sofistichiamo gli alimenti, ci facciamo raccomandare, chiediamo e concediamo favori calpestando con noncuranza i diritti altrui.

Noi italiani siamo un po’ fatti così. Il nostro carattere nazionale, ammesso che sia così facile identificarlo, e sempre con la cautela cui ci devono indurre le generalizzazioni, si è forgiato in secoli di dominazioni straniere, di sfiducia e nello stesso tempo di qualunquistica acquiescenza verso il potente di turno, di insufficiente senso di appartenenza alla comunità nazionale.

Siamo il paese di Machiavelli e Guicciardini, le cui filosofie superficialmente assimilate ci inducono all’esaltazione dell’astuzia e alla cura del nostro interesse particolare. Siamo individualisti, anarchici, capaci di grandi ed isolati gesti eroici, ma più spesso di comportamenti meschini e immorali.

In una congiuntura economica particolarmente difficile come quella attuale, che vede il nostro Paese arrancare nella competizione globalizzata dei mercati ed incapace di sviluppare quella coesione e unità di intenti, necessarie a risollevare le sorti nazionali, la questione della legalità acquisisce un’inevitabile centralità nel dibattito politico e culturale. 

Non passa giorno senza che i media segnalino scandali e storture. Le librerie pullulano di saggi  di denuncia del malcostume e della corruzione, che caratterizzano la vita nazionale quasi in ogni ambito. Si descrive ormai l’Italia, con credibili argomentazioni, come un Paese ingessato in caste arroccate nella difesa dei propri privilegi e sorde alle istanze dettate dall’interesse generale, col sistema economico e sociale nazionale ormai al collasso.
Un’ipotetica, ma credibile classifica della legalità, stilata nel 2007 da Transparency International, collocava l’Italia al 41° posto, non soltanto dietro le grandi democrazie occidentali, ma anche dietro Ungheria, Cile e Slovenia.

Intanto, la povertà che si va estendendo nella popolazione, intaccando persino quel ceto medio che soltanto qualche decennio fa godeva di un certo benessere, reclama un cambiamento, soprattutto culturale e comportamentale, netto e rapido. 
Siamo inoltre maturati come cittadini e diventiamo giustamente sempre più insofferenti verso l’ingiustizia diffusa.

Una cultura della legalità si sviluppa anzitutto, attraverso l’educazione. Un ruolo di primo piano spetta alla scuola. Già oberata da tanti compiti, la scuola deve assumersi il compito prioritario di  formare cittadini consapevoli, sviluppando il senso civico dei giovani, e facendo loro comprendere come solo il rispetto delle regole permette di esercitare la libertà individuale e che soltanto il rispetto della cosa pubblica e dell’interesse generale possono garantirci un’elevata qualità di vita.
Quello di organizzare degli incontri nelle scuole sulla legalità è una tradizione che si sta consolidando e che darà senz’altro i suoi frutti nell’immediato futuro. Già Falcone, Borsellino, il generale Dalla Chiesa, eroi della nostra storia contemporanea, incontravano spesso gli studenti. Oggi, per esempio, un insigne magistrato come Gherardo Colombo ha lasciato il suo incarico istituzionale per dedicarsi all’educazione e sensibilizzazione dei giovani sul tema della legalità, ritenendolo un modo efficace per combattere il crimine e contribuire al progresso della nazione.

“L’Italia, – diceva ironicamente lo scrittore Ennio Flaiano -, è la patria del diritto e del rovescio”. Come le grida manzoniane, le leggi sono tanto numerose quanto inefficaci. Il loro numero esorbitante va perciò sfoltito, in maniera da ridurre equivoci e contraddizioni che danno adito a pericolose discrezionalità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme. I potenti e i “furbi” approfittano della nebulosità dei regolamenti per avvantaggiarsene e farla franca. Va ripristinata, invece, la chiarezza delle regole e la certezza della pena.
Sociologismi e psicologismi deteriori hanno diffuso in Italia un giustificazionismo morale onnicomprensivo che nega la responsabilità individuale. Chi infrange le regole va ritenuto invece sempre responsabile delle proprie azioni e, una volta condannato, deve espiare le proprie colpe, fermo restando il serio tentativo di recuperare il reo alla società.

Va poi sviluppato anche da noi, come nelle nazioni più evolute, quello spirito di servizio che sempre deve accompagnare l’operato di dipendenti e funzionari della pubblica amministrazione. Chi esercita una funzione pubblica, a qualsiasi livello, deve recuperare l’orgoglio e il prestigio del proprio lavoro e usare il  potere grande o piccolo, che gli è conferito, per risolvere con giustizia e imparzialità i problemi del cittadino, non per vessare, ricattare o estorcere denaro. E’ l’etica del cosiddetto Civil Servant, il “servitore dello stato”, che va promossa e premiata.Occorre più trasparenza; non si dovrebbe più permettere che controllati e controllori siano spesso, come succede oggi, lo stesso soggetto e i dati relativi ai bilanci e all’attività della pubblica amministrazione dovrebbero essere, come succede nelle democrazie più mature della nostra, a disposizione di tutti, in maniera che ogni cittadino possa vigilare sul buon andamento dei pubblici uffici e possa esercitare quel controllo capillare che solo può impedire corruzioni e abusi. I controlli devono diventare più frequenti e rigorosi anche per le aziende private, che spesso aggirano con disinvoltura norme importanti, relative ad appalti, attività finanziarie e sicurezza sul lavoro.

La meritocrazia è in Italia un criterio poco praticato. Si fa carriera più per parentele, conoscenze, raccomandazioni, appoggi politici, scambi di favori che per criteri oggettivi di eccellenza. La mortificazione del merito costituisce un’ingiustizia sociale, danneggia il cittadino impedendo il raggiungimento nei vari ambiti della vita economica pubblica e privata dell’efficacia e dell’efficienza necessarie per realizzare importanti obiettivi e rende impossibile quella mobilità  che vivifica la società e rende fluida la circolazione delle elite, il ricambio efficiente, necessario e continuo della classe dirigente. 

In questo senso, licenziare i cosiddetti “fannulloni” dalla pubblica amministrazione serve a poco, se non si accompagna la bonifica con la selezione meritocratica di una classe dirigente con idee moderne, capace di dare l’esempio, organizzare, stare al passo con i tempi, introdurre miglioramenti nelle procedure, centrare gli obiettivi più vantaggiosi per la collettività. 

Infine c’è il compito immane di sconfiggere la criminalità organizzata. Intere regioni del Meridione sono sfuggite da tempo al controllo dello Stato e sono in mano di mafie potenti, che ne ritardano lo sviluppo economico e civile, intimidendo e vessando i cittadini di buona volontà, mantenendo un sistema sociale di tipo feudale e promuovendo parassitismi e attività criminali, incompatibili con la convivenza civile e con lo sviluppo di una società moderna, complessa e rispettosa dei diritti umani.

Il perseguimento di una maggiore legalità e di un maggiore rispetto delle regole è un compito arduo che richiede nel nostro Paese una mutazione culturale, direi quasi antropologica, di decenni. Per far sì che si progredisca occorre intanto che ogni singolo cittadino partecipi alla vita pubblica con maggiore impegno, che reclami i propri diritti e che assolva, in prima persona, ai propri doveri. Lo sviluppo di una cittadinanza più matura, consapevole e partecipativa, magari utilizzando la potenza dei nuovi mezzi di comunicazione che la contemporaneità ci mette a disposizione, come ad esempio la Rete, forse può ancora salvarci.

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