LA PASSIONE DI CRISTO

 

Indubbiamente il tema della figura di Cristo, comunque si voglia intendere nella sua natura (se umana o divina), ha esercitato ed esercita una grande fascinazione emotiva ed intellettuale. Il suo percorso finale, la sua passione, offre molti spunti per una riflessione sull’ontologia del male, ovvero sulla natura “apodittica” di quest’ultimo o sulla sua secondarietà alla composita struttura dell’umanità come essenza.

Due film hanno centrato quel momento della parabola di vita di Gesù, entrambi riconosciuti come capolavori ma per ragioni e con giustificazioni diverse: La passione, di Mel Gibson(2003) e L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese (1988).

L’opera di Gibson sta in un ideale trittico, fra Braveheart (1995) e Apocalypto (2006), che sviluppa la riflessione filmica dell’autore sul ruolo fondativo della violenza nel mondo, specialmente intorno alle diverse declinazioni del potere (politico o religioso o, più probabilmente, politico-religioso). Non sfugge pertanto l’ intima necessità del film di mettere la violenza stessa al centro della sua narrazione, con l’interminabile e intollerabile sequenza del martirio posta come suo baricentro rappresentativo.

Gibson si propone, probabilmente, di dare alla sua visione del Cristo e del suo sacrificio una sorta di caratterizzazione oggettiva, avvalendosi – per tutta la durata della pellicola – perfino dei dialoghi in aramaico (la lingua parlata in Palestina in quell’epoca). Indugia nei dettagli fisici, accarezza le ferite, amplifica a dismisura la messa in scena delle fustigazioni, schizza negli occhi dello spettatore una tale quantità di sangue da rendere l’esito finale della rappresentazione iperrealistico, e dunque tutt’altro che oggettivo. Al limite vojeuristico, senza nulla togliere alla forza dirompente delle immagini e al fascino di un cinema estremo, che esprime una dimensione cupa, pessimistica del cattolicesimo, totalmente virata alla contemplazione del male come elemento primigenio.  La prima edizione in DVD del film conteneva un libretto guida con una scheda e alcuni interventi di riflessione sulle sue  implicazioni concettuali.

La tentazione di Scorsese ci proietta verso un livello cinematografico di maggiore astrazione: il baricentro del film non è nella passione e nella crudezza sanguinolenta delle sue “poste”, ma nel sogno che il Cristo fa – poco prima di spirare – di una vita terrena, con la sua amata Maddalena e i figli e l’invecchiamento del corpo e la sua morte dopo una vita vissuta. La tentazione è dunque nient’altro che l’esaltazione della componente umana della sua natura, costantemente richiamata nel film attraverso i dubbi, gli scatti improvvisi, l’ira, lo sgomento del percepirsi uno strumento nelle mani di un padre che persegue un suo disegno oscuro.

Il cattolicesimo di Scorsese, di altra levatura intellettuale, si emancipa per una volta dal tema della violenza – che pure aveva sempre abitato i suoi film (basti pensare a Taxi Driver) –  e si propone come un cattolicesimo del dubbio, della cesura fra umano e divino, della solitudine (quella del Cristo in croce che grida al padre di averlo abbandonato!).

Non è un caso, forse, che nell’opera di Scorsese l’equilibrio emotivo sia affidato soprattutto alla musica, stupendamente creata da un Peter Gabriel ispirato, minimale, intimo, sensuale. Talmente sensuale, come molta parte del film, da avere scatenato all’epoca della sua uscita nelle sale le ire dei soliti cialtroni cattolici integralisti, timorosi del successo di un’opera ritenuta blasfema.

Grandi, in entrambi i casi, gli attori protagonisti: il Jim Caviezel di Gibson, con la sua fisicità e la profonda tristezza del suo sguardo; il Willem Dafoe di Scorsese, con i suoi occhi ribollenti di dubbio e di amore per la vita.

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