Il sud nell’Italia sabauda di Carlo Ruta

La prospettiva unitaria non era solo nelle aspettative del ceto dirigente sabaudo e dell’industria del nord, penalizzata quest’ultima dalle barriere doganali che, lungo la penisola, deprimevano la circolazione delle merci. Veniva reclamata dal mondo intellettuale, che si riconosceva in una lingua comune e in un secolare patrimonio di tradizioni, scientifiche, letterarie e non solo. Correlata a istanze di tipo federalistico, veniva presa in considerazione da sicilianisti come Domenico Scinà, Pietro Lanza di Scordia, Isidoro La Lumia, Michele Amari. Fu tenuta in debito conto da Ruggero Settimo e dagli altri capi rivoluzionari del ‘48 palermitano, prima della inevitabile sconfitta. Su tale prospettiva, rivendicata pure dai locali padroni del vapore, dai Florio agli inglesi Woodhouse e Ingham, convergeva altresì, negli anni cinquanta, il radicalismo democratico che, lungo i tracciati mazziniani e garibaldini, andava diffondendosi fra i ceti medi e popolari dell’isola, sotto l’egida di personalità come Francesco Crispi e Rosolino Pilo. Tutto questo, associato ad alcuni iter in corso nel continente europeo, dovrebbe confortare la tesi di una storia tutto sommato coerente e liberale dell’unità d’Italia. Esistono nondimeno fatti, controversi, che tanto più oggi sollecitano a nuovi impegni interpretativi.

Agli esordi dell’impresa siciliana, Garibaldi e i suoi referenti dell’isola presero in seria considerazione l’argomento della terra. Nel vivo dei combattimenti, il 2 giugno 1860, un decreto firmato da Francesco Crispi ne prometteva infatti l’assegnazione ai contadini, a partire da coloro che si sarebbero battuti “per la patria”. In realtà, i fatti di Bronte, Alcara, e altri centri, che per la loro gravità hanno gettato ombre sul garibaldismo di quei frangenti, testimoniano come andarono le cose. L’anno clou, che aprì realmente la questione meridionale fu comunque il 1862, quando, in un contesto del tutto diverso, sullo sfondo del nuovo regno sabaudo, il radicalismo democratico, che avrebbe potuto sorreggere le istanze civili nel sud, con l’attuazione di una riforma agraria e non solo, venne sbaragliato. La resa dei conti venne quando Garibaldi mosse dalla Sicilia per risolvere militarmente la questione romana, giacché il capo del governo Rattazzi, apparso di primo acchito interlocutorio, non esitò a proclamare nell’isola lo stato d’assedio, conferendo il comando delle truppe a Raffaele Cadorna. Ne seguirono rastrellamenti e repressioni, a Girgenti, Racalmuto, Alcamo, Bagheria, Siculiana, Grotte, Casteltermini, culminanti in autunno con l’eccidio di Fantina. In tutto il Mezzogiorno, attraversato dalla guerriglia legittimista, l’anno si chiudeva d’altronde, come veniva espresso in un rapporto della Camera, con oltre 15 mila fucilazioni e circa mille uccisi in combattimento. Entrava così nel vivo l’offensiva di Cadorna, che avrebbe avuto un momento decisivo nel 1866, quando la rivoluzione detta del Sette e Mezzo sarebbe stata repressa con il cannoneggiamento di Palermo.

 

Lo statuto, mutuato da quello albertino del 1848, al sud venne violato da allora regolarmente, con un uso metodico della forza. In tutto il Mezzogiorno, proposta dal deputato della Destra Giuseppe Pica, dal 15 agosto 1863 veniva resa operativa, e sarebbe durata oltre due anni, la legge marziale, che prevedeva la sospensione dei diritti costituzionali, la punizione collettiva per i reati dei singoli e la rappresaglia contro i centri abitati. Precisi atteggiamenti culturali, con o senza cautele, intervenivano a legittimare intanto, pure in sedi ufficiali, ogni eccesso repressivo.

….. fin qui Carlo Ruta di cui  condividiamo , ma solo in questo articolo le sue analisi storiche della vicenda Questione meridionale. Un solo appunto vogliamo fare: Quando Ruta sostiene che i fatti di Bronte e di altre zone della Sicilia aprirono la questione meridionale  non dice perché Garibaldi fu, indirettamente, autore di quelle stragi mandando i suoi generali a reprimere nel sangue le proteste della mancata riforma agrazia promessa con lo slogan “la terra ai contadini” ma mai concessa. Se Ruta avesse letto i nomi di tutti i “picciotti” che andarono a combattere a fianco di Garibaldi contro i Borboni avrebbe capito che i baroni che reclutavano i volontari costituivano la vera aristocrazia agraria dellìisola che arruolavano i picciotti prendendo i poveri disgraziati braccianti agricoli dei loro feudi che mandavano a combattere a fianco di Garibaldi. Altro che la terra ai contadini, le stragi dei contadini dovrebbe dirsi. Per il resto condivido, per quello che può valere il nostro modesto parere, peraltro condiviso da un certo Giorgio Candeloro (Storia d’Italia volume settimo) un grande professore di Storia moderna  anche all’ Università di Catania. A domani per il prosieguo della storia di Carlo Ruta

Franco Portelli

(Continua domani)

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