IL PARAFULMINE DELLA MONETA UNICA MASCHERA I DIFETTI STRUTTURALI DELL’UNIONE EUROPEA

In questo momento in Europa ci sono tre blocchi: quello dell’austerità e delle larghe intese, formato dai popolari e dai socialdemocratici, quello della destra populista (anti euro e antieuropeista) e quello della sinistra. Non contro l’Europa, non contro l’euro, ma contro le sue politiche di rigore e di austerità e per la riforma delle sue istituzioni dall’interno. La Ue è nata con due gravi difetti strutturali, insiti nello statuto e relative funzioni della Commissione europea e della Bce. La Commissione opera di fatto come il direttorio della Ue, ma non è stata eletta da nessuno, le sue posizioni differiscono sovente da quelle del Parlamento europeo, organismo eletto, e appare in troppi casi funzionare come la cinghia di trasmissione dei dettami iperliberisti dell’Ocse e del Fmi. Da parte sua la Bce è una banca centrale di nome, che però opera solo parzialmente come tale. Gli stati della zona euro hanno ceduto il potere di creare denaro, com’era necessario per creare una grande realtà politica ed economica quale è la Ue, ritrovandosi poi senza una banca centrale che presti loro, in caso di reale necessità, il denaro occorrente. La Bce dovrebbe operare come un prestatore di ultima istanza – così sostengono vari economisti – non diversamente da quanto avviene con altre banche centrali in tutto il mondo. Tuttavia il suo statuto per ora le impedisce di assumere in modo diretto un simile fondamentale ruolo e potere. La Bce è l’unica banca centrale al mondo che non possa prestare denaro allo Stato (o agli Stati membri, nel caso Ue), nemmeno quando vi siano buoni motivi per farlo. Glielo vieta l’art. 123 del Trattato Ue – di fatto imposto dalla Bundesbank al momento della redazione del testo nei primi anni 90. Con esiti paradossali. Per dire, tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012 la Bce ha prestato più di 1.000 miliardi di euro alle banche dell’Unione, al tasso dell’1% per tre anni. Oltre 200 miliardi sono andati a banche italiane. Le banche hanno usato tale somma in parte per pagare dei debiti (anche nei confronti della Bce), in parte per ricapitalizzarsi – e in parte per acquistare titoli pubblici che rendono dal 3 al 7% e oltre l’anno. Sarebbe quindi necessaria una modifica del Trattato e dell’annesso statuto che permetta alla Bce di prestare denaro alle pubbliche amministrazioni, come fanno la Fed americana, la Bank of England, la Banca Nazionale Svizzera, la Banca del Giappone ecc. L’Italia per prima starebbe meglio se potesse prendere in prestito, ad esempio, 100 miliardi all’1% o meno per alcuni anni, anziché emettere titoli della stessa durata su cui paga cinque o sei volte tanto. Tutto ciò ha influito negativamente in tutta la Ue sulla possibilità di condurre politiche economiche e sociali adeguate alla situazione dell’economia europea e mondiale. Infatti, se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà. Sebbene il modello sociale europeo presenti notevoli differenze da un paese all’altro, nessun altro grande paese o gruppo di paesi al mondo offre ai suoi cittadini un livello paragonabile di protezione sociale – la più significativa invenzione civile del XX secolo. Ne segue che i governi Ue che attaccano lo stato sociale sotto la sferza liberista della troika (Ce, Bce e Fmi), nonché del sistema finanziario internazionale, minano le basi stesse dell’unità europea, oltre a fabbricare recessione per il prossimo decennio e piantare il seme di possibili svolte politiche di estrema destra. Alla luce della crisi attuale, l’Ue appare impotente anzitutto perché non ha ancora alcuna istituzione che svolga qualcosa di simile alle funzioni di un governo centrale democraticamente eletto e riconosciuto dalla maggioranza dei suoi cittadini. Di conseguenza ciascun Paese pensa per sé. Peraltro l’impotenza deriva anche da una diagnosi sbagliata – quando non sia volutamente artefatta – delle cause della crisi di bilancio. Quest’ultima viene concepita come se derivasse da un eccesso di uscite generato dai costi dello stato sociale, laddove si tratta in complesso di un calo delle entrate che dura da oltre un decennio. Esso è stato causato da diversi fattori: i salvataggi delle banche, che solo nel Regno Unito e in Germania sono costati un paio di trilioni di euro; le politiche di riduzione dell’onere fiscale concesse ai ricchi, che hanno sottratto centinaia di miliardi ai bilanci pubblici ; infine il fatto che grazie alle delocalizzazioni le multinazionali pagano le imposte all’estero, dove tra l’altro sono minime, e non nel paese d’origine (dove invece licenziano e chiudono stabilimenti). Ora se un governo è ossessionato dall’idea che il deficit sia dovuto unicamente a un eccesso di spesa sociale punta a tagliare quest’ultima, cercando però al tempo stesso di evitare ricadute negative in termini elettorali, e per la medesima ragione si rifiuta di accrescere le entrate alzando le imposte ai benestanti, o alle imprese delocalizzate. È ovvio che non fa differenza se quel governo sa benissimo che la diagnosi è errata, ma la abbraccia per soddisfare le forze economiche cui ritiene di dover rispondere. In ambedue i casi il risultato sono manovre che picchiano soltanto sui più deboli, mentre le radici reali della crisi non sono nemmeno intaccate.

Ha senso, come alcuni fanno, in questo contesto auspicare il ritorno alle monete nazionali per risolvere in sol colpo tutti i problemi? Sarebbe una pura follia. In primo luogo il ritorno a diciassette monete diverse solleverebbe difficoltà tecniche assai complicate da superare, poiché l’integrazione economica, finanziaria e legislativa tra i rispettivi paesi ha fatto nel decennio e passa dell’euro molti passi avanti. Inoltre parecchi paesi avrebbero a che fare con tassi di scambio catastrofici. Tra di essi vi sarebbe sicuramente l’Italia. Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il franco a 500 lire (era a 300 quando venne introdotto l’euro), il marco a 2.000 (era a 1.000) e la sterlina a oltre 3.000. A qualche imprenditore simili tassi possono far gola, poiché favoriscono le vendite all’estero; ma essendo quella italiana un’economia di trasformazione, che all’estero deve comprare tutto, dal gas ai rottami di ferro, il costo degli acquisti dall’estero le infliggerebbe un colpo insostenibile. Insostenibile soprattutto per le classi meno abbienti, le vere vittime della crisi dei nostri giorni. Ciò non toglie che l’esigenza è quella di una moneta davvero comune per tutti i Paesi membri, non ci possono essere proprietari ed inquilini, bisogna essere alla pari. Il problema oggi non è l’euro, non è la moneta unica, ma democratizzare le istituzioni europee ed orientare le politiche verso altre direzioni. Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. Democratizzare le istituzioni europee sarebbe un compito impellente per i governi europei, se non fosse che per governi di destra e delle larghe intese, come di fatto son diventati quasi tutti, in fondo una governance non democratica e socialmente irresponsabile della Ue non è poi un gran male. Nell’intera Unione è ormai evidente un processo di de-democratizzazione. La lettera della Commissione Europea al governo Berlusconi poco prima che cadesse, nel novembre 2011; il Memorandum di intesa inviato dalla Ue alla Grecia nel febbraio del 2012; il Trattato di stabilità firmato dai capi di governo a inizio marzo (più noto come Fiscal Compact) contengono tutti dettagliatissime e imperative ingiunzioni in tema di finanza pubblica, mercato del lavoro, competività e semplificazioni regolative. Di fatto assomigliano da vicino ai dettati di una potenza occupante. Sono state concepite e scritte dalla troika (CE, Bce e Fmi) e approvate in pochissimi giorni dai capi di governo dei paesi membri. Niente referendum, niente voto popolare. I parlamenti non sono stati da meno. Il parlamento italiano ha approvato senza discutere, e senza un minimo di discussione pubblica, la modifica dell’art. 81 della Costituzione, che prevede il pareggio di bilancio come vincolo costituzionale (di fatto suggerito, ma non imposto, dal Trattato di stabilità): un dispositivo semplicemente insensato dal punto di vista economico, politico, giuridico, poiché ove fosse rispettato impedirebbe per sempre qualsiasi politica economica. I governi Ue sembrano insomma avere ceduto su tutta la linea. Un recupero del processo democratico nella Ue potrà aver luogo soltanto dopo che i governi, e prima di essi il Parlamento europeo, avranno ritrovato finalmente la capacità di regolare la finanza, piuttosto che farsi regolare da essa, e rivedere il ruolo della BCE. Questo è il compito della politica: riformare le istituzioni e orientare le scelte. Le politiche Ue dovrebbero porre al primo posto l’occupazione, che sta diventando una tragedia per gran parte dei popoli dell’Unione. E’ un’illusione della dottrina neo-liberale, praticata dai governi Ue, che prima viene la crescita e poi l’occupazione seguirà. E’ vero esattamente il contrario. Un progetto del genere a livello Ue richiederebbe l’emissione di denaro fresco da parte della Bce.  Non sarebbe un costo passivo; in realtà sarebbe tutto denaro immesso nel circuito dell’economia, con un considerevole effetto moltiplicatore. Gli ostacoli a un simile progetto non sono affatto economici, bensì politici e dottrinali: gli economisti ed i politici i quali pensano che un grado di disoccupazione abbastanza alto sia sempre meglio di mezzo punto in più di inflazione sono ancora la maggioranza, e sono loro che dettano le scelte.

Non è colpa dell’euro, è tutta una questione politica.

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it