I PARTITI POLITICI

Il partito è un’associazione il cui fine è di influenzare le decisioni pubbliche; tali scopi sono ottenuti principalmente attraverso la partecipazione alle elezioni e la strategia principale è l’occupazione di cariche elettive.

I partiti sono mediatori tra lo Stato e i cittadini. I partiti svolgono infatti la funzione di controllo dei governati sui governanti: poiché infatti i candidati si presentano all’interno di liste di partito, è più facilmente punibile un’eventuale rottura del patto di fiducia tra il candidato eletto e gli elettori che lo hanno votato (non votando più il partito di cui fa parte). I partiti strutturano il voto: questo perché i candidati alle elezioni sono prevalentemente membri di un partito, e perché il partito è l’entità con cui gli elettori si identificano. Esso svolge una funzione di socializzazione politica, poiché attraverso la loro azione i partiti educano gli elettori alla democrazia. Infine, mentre i gruppi di interesse articolano gli interessi dei cittadini, i partiti si occupano di aggregare questi interessi.

In Italia si può parlare di partiti politici moderni a partire dal 1892, quando viene fondato il Partito Socialista Italiano. Sino a quel momento i principali raggruppamenti politici del paese, la Destra storica e la Sinistra storica, non erano classificabili come partiti, ma semplici “cartelli” di notabili, ciascuno con un proprio feudo elettorale, che si riunivano in gruppi a seconda delle proprie idee. Questi due gruppi politici erano considerati i due poli dell’area liberale.

Alla loro sinistra si schieravano i Repubblicani, che rappresentarono l’estrema sinistra parlamentare fino al 1892, e che si organizzarono in vero e proprio partito solo nel 1895.

Questi tre gruppi politici, i liberali, i repubblicani ed i socialisti, si sono sempre considerati gli eredi diretti delle correnti che avevano dato vita al Risorgimento. Ed in effetti ciascuna di esse si ricollega ad un preciso “Padre della Patria”: i liberali a Cavour, i repubblicani a Mazzini ed i socialisti a Garibaldi.

Il Partito Socialista Italiano sin dagli inizi si prefigura come partito di massa, la forma partitica che sarà predominante per tutto il Novecento, e viene seguito pochi anni dopo dai movimenti politici cattolici, prima con la Democrazia Cristiana Italiana di Romolo Murri, poi con il Partito Popolare Italiano fondato da don Luigi Sturzo nel 1919. Non a caso entrambi i partiti otterranno notevoli successi elettorali sino all’avvento del fascismo, contribuendo in maniera determinante alla perdita di forza e autorevolezza della vecchia classe dirigente liberale, che non era stata capace di strutturarsi in una forma partitica in grado di affrontare le nuove sfide della società.

Nel 1921 si costituì il partito Nazionale Fascista, nato dalla fusione tra l’Associazione Nazionalista Italiana, di recente formazione, generalmente detta “Partito Nazionalista”, di idee monarchiche e patriottiche, e la Federazione dei Fasci italiani di combattimento, sorta nel 1919 ad opera di Benito Mussolini.

Nel 1921 da una scissione del Partito Socialista nacque il Partito Comunista Italiano. Al momento della sua fondazione nel 1921 il PCI non era diverso dagli altri partiti comunisti europei, molto più piccoli rispetto ai “fratelli” socialisti o socialdemocratici e privi di un radicamento effettivo nelle masse e nella classe proletaria, in quanto prediligevano il ruolo di avanguardia rivoluzionaria tracciato da Lenin nelle sue opere politiche.

Questi tre partiti, il cattolico, il fascista ed il comunista, nati nel breve periodo che intercorre fra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’avvento del Fascismo, possono essere considerati la seconda generazione dei partiti italiani, quella dei grandi partiti di massa.

Nel secondo dopoguerra i partiti di massa furono Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano: questa fu una delle peculiarità del sistema politico italiano. Il ruolo fondamentale svolto dal movimento comunista nella Resistenza ha consentito però al PCI di prendere il posto del Partito Socialista come rappresentante della classe operaia e di diventare stabilmente, dopo il 1948, il secondo partito italiano nonché il primo della sinistra. Il PCI ha rappresentato, praticamente in maniera continua, l’opposizione ai governi centristi della DC e a quelli DC-PSI e alleati per più di quarant’anni.

Questa situazione ha condizionato fortemente il sistema politico italiano, perché mentre negli altri Paesi europei la presenza di forti partiti socialisti, socialdemocratici o laburisti, ma sempre privi di legami con l’Urss, consentiva l’alternanza di governo, in Italia la pregiudiziale anticomunista e antisovietica rendeva di fatto impossibile tale alternanza. ciò spiega la permanenza ininterrotta al potere per oltre mezzo secolo della Democrazia Cristiana. Tuttavia la DC dal 1953 in poi mai ha avuto i voti sufficienti a governare da sola il Paese, a causa del sistema elettorale italiano completamente proporzionale. Questo spiega inoltre il notevole potere che sino al 1992 hanno avuto i piccoli partiti “laici” (Partito Liberale Italiano, erede del liberalismo pre-fascismo, Partito Socialista Democratico Italiano, nato dal PSI nel 1947, Partito Repubblicano Italiano), necessari per la formazione di maggioranze parlamentari.

La necessità di accordi continui fra partiti ha portato alla cosiddetta partitocrazia, e cioè l’occupazione, da parte dei partiti, di tutti i gangli dell’amministrazione pubblica, con l’inevitabile corollario di corruzione, nepotismo, inefficienza. Questo, insieme alle crisi delle ideologie e alla fine della guerra fredda, ha portato ad una generale perdita di credibilità e autorevolezza dei partiti, iniziata durante gli anni ottanta con il calo graduale ma inesorabile dei consensi di PCI e DC, e culminati nel crollo successivo all’inchiesta di Mani Pulite del 1992. A questa domanda di rinnovamento proveniente dalla società italiana si deve aggiungere però il deteriorarsi del partito di massa: dopo la disgregazione di PCI e DC e la scomparsa del PSI e dei partiti laici, le nuove forze politiche emergenti sono movimenti “personali” come Forza Italia, e partiti di protesta come la Lega Nord.

Dopo più di dieci anni di distanza dall’apparente crollo della nomenclatura della Prima Repubblica, i partiti italiani con molta difficoltà sono giunti ad un sistema bipolare. Poiché si pensava che il gran numero di partiti della Prima Repubblica fosse dovuto al sistema completamente proporzionale, si è sostituito questo sistema con un maggioritario secco (in verità solo in parte, in quanto è stato creato un sistema misto con una quota maggioritaria per il 75% dei seggi e il restante assegnato tramite proporzionale). Ma il maggioritario invece che diminuire moltiplicava il numero di partiti: il maggioritario secco infatti spinge alla formazione di coalizioni, nelle quali i partiti piccoli hanno buon gioco nel chiedere un certo numero di seggi sicuri in cambio del proprio appoggio, quasi sempre determinante. Anche l’ultima riforma elettorale del 2006, che restaura un proporzionale, ma che all’atto pratico è un maggioritario a collegio unico, che elimina le preferenze, conferisce un grande potere alla classe dirigente dei partiti e rende impossibile una penetrazione di essi da parte della società civile.

In base a quanto prevede la Costituzione per i partiti politici in Italia, essi vengono considerati come operatori politici, in competizione tra di loro, che devono obbligatoriamente svolgere la loro attività con metodo democratico. I partiti sono senza dubbio i principali operatori politici: essi hanno numerose funzioni pubbliche come la presentazione delle liste elettorali in occasione delle elezioni, la designazione, attraverso i “gruppi parlamentari”, di titolari di importanti cariche pubbliche, o il ruolo svolto durante le “consultazioni” del Presidente delle Repubblica per la scelta del nuovo Presidente del Consiglio. Tuttavia, queste funzioni pubbliche si sovrappongono ad una natura essenzialmente privatistica. Ai partiti politici non è stata infatti riconosciuta “personalità giuridica”, ed essi sono di conseguenza considerati delle “associazioni di fatto” secondo gli articoli 36 e 38 del codice civile.

Questa situazione di “non regolamentazione” ha mostrato di recente alcuni limiti.

Uno con riferimento al finanziamento pubblico e al suo utilizzo a volte “irrituale”. Sarebbe veramente il caso di eliminarlo del tutto o di istituire dei controlli pubblici, visto che si tratta di soldi della collettività dati ai partiti per finalità di interesse collettivo.

Il tentativo dei partiti della sinistra di dare più trasparenza alla loro attività con la designazione dei candidati ad alcune tornate elettorali locali, ha dato risultati incongrui con un funzionamento trasparente dell’attività degli stessi. E’ successo che il PD, attualmente partito di maggioranza relativa a livello nazionale, non riesce a far eleggere i propri candidati, mentre vengono spesso eletti i candidati di Sel, partito che non ha rappresentanza in parlamento. La questione andrebbe approfondita da professionisti della sociologia politica, ma a me, modestissimo dilettante della politica, sembra che il motivo sia uno solo: le gerarchie interne ai partiti non rappresentano i sostenitori dei partiti perché il sistema dei tesseramenti e dei congressi interni è quai sempre truccato. Quando un partito ha interesse, per vincere le elezioni, a sintonizzarsi con le posizioni dei cittadini, emerge immediatamente lo scollegamento tra i burocrati e i cittadini.

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