E’ scomparso in silenzio Giuseppe Schembri, uno dei bambini della Quarta Sponda. Aveva 94 anni

E’ uscito di scena uno degli ultimi bambini della Quarta Sponda, un uomo d’altri tempi dalla tempra inossidabile. Giuseppe Schembri era anche uno degli ultimi invalidi del secondo conflitto mondiale ancora viventi della provincia iblea, che ha contribuito alla nascita dell’Associazione vittime civili di guerra provinciale, operando anche in favore della Fuci e del mondo sindacale bancario locale. Nonostante i suoi 94 anni, forse avrebbe potuto vivere ancora, ma le complicazioni derivate dal virus gli hanno fermato il cuore martedì mattina. Il primo giugno del 1940 Giuseppe era salpato dal porto di Tripoli, a bordo di una delle sei grandi navi della Marina militare italiana dirette verso la Penisola.

Era uno dei bambini della Quarta Sponda, i piccoli ostaggi dell’irrazionale sogno di Mussolini che aveva promesso, illudendoli, ai 30 mila genitori coloni della Tripolitania, che i loro figli avrebbero trascorso una dolce vacanza al mare, nelle colonie fasciste disseminate sulle coste dell’Adriatico. Invece la follia del Duce trascinò 13mila bambini, senza genitori, in un paese in guerra, nel mirino dei bombardamenti. E Giuseppe, che all’epoca aveva 14 anni, divenne uno dei tanti fratelli maggiori che per anni accudì i fratelli minori, bambini soli, smarriti e impauriti.

“Fu una delle tante prove che la vita impose a mio marito e che superò brillantemente – racconta la moglie Anna Lauretta – perché fece da mamma e papà ai 3 fratelli, consolandoli e avendone cura e nel frattempo seguendo le rigidissime regole della colonia e i compiti quotidiani da assolvere”. Tre anni dopo, fra le strade della capitale piena di ordigni inesplosi, Giuseppe divenne il facile bersaglio di una mina che gli strappò il braccio e l’occhio sinistro. La deflagrazione gli rubò anche l’udito di un orecchio, deturpando di tante ferite pure le gambe e l’unico braccio rimastogli.

“Mio fratello fu amputato senza anestetici, combatté tra la vita e la morte per mesi, nell’ospedale militare dei Cavalieri di Malta e sopravvisse anche al tifo. Mia madre, intanto, era venuta da Tripoli per assisterlo e stava sempre con lui, mentre noi fratelli vendevamo qualsiasi cosa che possedevamo, per comprare del cibo migliore a Pino”, racconta Angelo Schembri, l’ultimo fratello ancora vivente, residente a Ragusa. Pino è il nome affettuoso col quale Giuseppe è stato sempre chiamato dalla moglie Anna, docente alla scuola secondaria di primo grado, e dai suoi congiunti: si salvò grazie alla sua inesauribile forza e fu uno dei primi piccoli invalidi che sperimentò con successo la penicillina, appena introdotta in Italia dagli americani.

Ma Giuseppe non si arrese al destino di invalido. Dopo i difficili anni della guerra e la sua chiusura, si trasferì nella città d’origine, Vittoria. In Sicilia come nel resto d’Italia, la vita degli ex coloni era sempre più difficile e misera. Così col resto della famiglia tornò nuovamente in Libia dove mise a frutto i suoi studi superiori e universitari, iniziando ad insegnare inglese agli arabi e a lavorare con gli inglesi.

“Pino era un ragazzo tenace – ricorda il fratello Angelo, che per anni è stato impiegato dell’Empas – e per ogni materia che dava alla facoltà di Economia e commercio dell’Università di Catania, prendeva un aereo da Tripoli e dopo avere sostenuto l’esame, tornava in Libia e riprendeva a lavorare e studiare”. Dopo la cacciata di Gheddafi, gli ex coloni e gli ex profughi di guerra ritornarono in Sicilia, perdendo tutto quello che avevano guadagnato in duri anni di lavoro in Libia. Ma Giuseppe non si perse d’animo e iniziò una nuova vita, valorizzando la laurea conseguita con 110 e lode che lo avviò alla lunga carriera presso il Banco di Sicilia, divenendone un funzionario stimato e integerrimo.

Negli ultimi giorni della sua vita ha lottato come un leone, sostenendo la scelta dei figli che hanno deciso di non ricoverarlo in ospedale e di non lasciarlo al suo destino. Il suo letto di sofferenza è stato trasformato in un piccolo ospedale, assistito dai figli, da un giovane bosniaco, Sebastian Kokotovic, e dall’infermiere di famiglia, operatori che hanno offerto impegno, competenza e cuore mettendo da parte la paura di infettarsi. Ha combattuto sino all’ultimo respiro, prima di uscire di scena da una vita incredibile, intrecciata negli eventi più importanti del ventesimo secolo.
fonte La Sicilia

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