C’era una volta l’ultimo giorno di scuola. Lo scorso millennio

“Houston! … qui Ragusa.”

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola 

Per noi creature del tardo giurassico era un’altra storia. 

Dovremmo raccontare questa cosa ai nostri figli. Eravamo alunni di un altro secolo. La scuola finiva i primi di giugno e riprendeva il primo di ottobre. 

Salutavi i compagni. E perdevi le loro vite per tre mesi almeno (quasi quattro). Chi partiva per il mare. Chi per la campagna di nonno. Chi restava in città. Chi raggiungeva i parenti in Sicilia. O più lontano. 

I più fortunati (pochi) restavamo in contatto, vuoi per una imponderabile alchimia geografica, vuoi per uno scherzo del quartiere o per la gentile concessione delle consuetudini familiari. 

Per il resto, di regola, inesorabilmente ci si disperdeva nel Cosmo come polvere di stelle. Ci si divideva. Dopo una quotidianità eterna.

Non esistevano i social, i cellulari, i fili perenni e fitti di parole e foto e video-voci. E il telefono fisso era uno scrigno il cui lucchetto era il segreto di un adulto. 

Le cartoline erano tartarughe sognanti che arrivavano chissà quando, chissà dove, chissà perché. E forse.

Vi direi questa cosa, bambini e ragazzi della generazione W. Oggi siete costantemente e quotidianamente in contatto. Prossimissimi in tempo reale. In una diretta “h 24” e in quasi-presenza.

Il nostro ultimo giorno assomigliava invece ad un augurio profondo, nell’intimità di parole non dette: 

“Devi stare bene. Perché l’anno prossimo ci sceglieremo come compagni di banco. Vero?”

In fondo, l’estate era come un’infinita storia di Tik Tok, senza immagini e suoni, in cui ballavano solo affetti e ricordi, silenzi e desideri. Una storia a suo modo meravigliosa.

Perché noi abitavamo la nostalgia. E il rimpianto. In un modo che molti di voi disconoscono. Noi sapevamo la psicologia della distanza. In un libro che molti di voi non leggeranno. E poi, la sorpresa nel ritrovarsi persino cambiati, nei brufoli e nelle voci d’un tratto di ruggine. E poi scoprire che all’appello mancava un amico. Col quale avevi litigato. Il padre si era dovuto trasferire a Savona. E io Savona non sapevo neppure dove fosse. E non sapevo perché. 

Ma oggi c’è Internet. Il Web. Anche io, merluzzo ribollito in salamoia, faccio ingresso di diritto nell’Era W. E oggi approfitto vergognosamente di questa rubrica: voglio dire che ho scritto tutto sotto il banco. Ho le prove. Ho la foto del banchetto su WhatsApp. C’è ancora quella scritta con l’uni Posca azzurro: “Scusa, scemo. Ho sbagliato io. Ma ti avrei chiesto lo stesso di essere il mio compagno di banco.”

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