ARTICOLO 18

In questi giorni tutti parlano dell’articolo 18; ma non solo è l’argomento del giorno, è anche forse l’ostacolo più grande di fronte a cui si è trovato il governo Monti dalla sua esistenza.

Cerchiamo di capire allora ciò di cui si parla.

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori regola la tutela dei lavoratori disciplinando il caso di licenziamento illegittimo (perché effettuato senza comunicazione dei motivi, perché ingiustificato o perché discriminatorio) di un singolo lavoratore nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole); nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti (5 se agricole) se l’azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola); nelle aziende con più di 60 dipendenti.

In caso di licenziamento individuale illegittimo l’articolo 18 impone all’azienda sia il reintegro del lavoratore che una sanzione pecuniaria, rendendo di fatto nullo il licenziamento stesso. Viene disposta la reintegrazione del lavoratore e non la riassunzione, perché altrimenti il dipendente perderebbe l’anzianità di servizio e i diritti acquisiti con il precedente contratto.

L’onere della prova della legittimità del licenziamento spetta all’azienda, che deve dimostrare al giudice del lavoro la fondatezza dei motivi alla base del provvedimento preso. La disciplina del lavoro degli altri paesi europei non prevede in generale l’obbligo del reintegro, ma solo un risarcimento al lavoratore. Per contro, i sostenitori della conservazione di questa norma obiettano che in Italia i licenziamenti sono largamente possibili per varie cause e che questa garantisce soltanto che il singolo lavoratore non venga estromesso per motivi di carattere privato o ideologico e per evitare che le aziende siano tentate di liberarsi di lavoratori anziani “meno produttivi” e soprattutto con una busta paga più onerosa.

Lo Statuto dei lavoratori è la legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, ed è una delle norme principali del diritto del lavoro italiano. La sua introduzione provocò importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali; ad oggi di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l’ossatura e la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro in Italia.

Il percorso politico che nel 1970 sarebbe sfociato nell’emanazione dello Statuto si lega principalmente ad una paternità socialista. Fu il Partito socialista italiano di Nenni a premere perché la regolamentazione si frapponesse come argine al dilagare del disordine di questa materia, e ne fece cavallo di battaglia politica.

Dopo la legge 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle norme in materia di infortuni e malattie professionali), la legge 21 luglio 1965, n. 903 (che introduceva le pensioni di anzianità e istituiva la pensione sociale) e la legge 15 luglio 1966, n. 604 (che regolava la materia dei licenziamenti), tutte promosse dal PSI, i socialisti esercitarono fortissime pressioni perché le azioni normative in materia agraria (1964), peraltro anch’esse oggetto di polemiche, venissero corroborate da analoghe azioni sul lavoro in generale.

Di particolare rilievo in questo senso fu l’opera di Giacomo Brodolini, sindacalista socialista che fu ministro del lavoro e della previdenza sociale e che legò il suo nome sia alla riforma del 1969 proprio della previdenza sociale (la cosiddetta “riforma delle pensioni”, passate dal sistema “a capitalizzazione” a quello “a ripartizione”), sia all’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, sia all’impulso più determinante per la codificazione della materia del lavoro: Brodolini richiese infatti l’istituzione di una commissione nazionale per la redazione di una bozza di statuto (da lui nominato “Statuto dei diritti dei lavoratori)”, alla cui presidenza chiamò Gino Giugni, anch’egli socialista, allora solo un docente universitario seppure già noto, ed un comitato tecnico di notevole spessore.

Il maggior promotore dello Statuto, Brodolini, non lo vide venire alla luce poiché morì poco dopo l’istituzione della Commissione, ed il maggiore merito di indirizzo nei lavori di questa viene generalmente attribuito al Giugni, che avrebbe in seguito dichiarato di essersi sempre fondamentalmente ispirato alle indicazioni di Brodolini.

Come allora l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori fu una riforma importantissima dal punto di vista sostanziale ma anche di grande impatto emotivo, anche ora la riforma dell’articolo 18 che si vuole affrontare ha una grandissima rilevanza emotiva. Su Repubblica del 22 marzo abbiamo letto che la riforma ha una “ampiezza che  avviene a scapito della profondità e si ha come l’impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell’articolo 18 e l’opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo”. E’ veramente così? Sempre su Repubblica possiamo trovare (http://www.repubblica.it/economia/2012/03/22/news/articolo_18_ecco_come_cambier-32001918/) una tabella di raffronto tra la regolamentazione attuale e quella proposta dal governo Monti.

Un lettore poco attento dirà che, alla fine, non è che poi cambi molto; ma non è veramente così. Cambia l’onere della prova nell’eventuale giudizio sul licenziamento: prima era l’azienda che doveva dimostrare la legittimità del suo operato ora è il lavoratore che agisce in giudizio a dover dimostrare le sue ragioni: e per un lavoratore che avrà, quasi sempre, a difenderlo un avvocato pagato dal sindacato contro i migliori professionisti pagati a fior di parcelle dall’azienda, un vertenza giudiziaria sarà tutta in salita.

La legge attualmente in vigore prevede solo il reintegro più il risarcimento, la nuova proposta, per il licenziamento economico, prevede solo il risarcimento mentre, per il licenziamento disciplinare, lascia al giudice l’alternativa tra reintegro e risarcimento. Si dice che la norma è copiata dall’ordinamento tedesco e da altri europei; ma si dimentica di ricordare che se le leggi sono diversi nei vari paesi ciò avviene anche perché diversa è la realtà economica e anche l’etica dell’economia. In un paese ricco come la Germania, un lavoratore licenziato si becca il risarcimento ed ha tutto il tempo per trovarsi un nuovo lavoro. In Italia, un lavoratore licenziato a 50 anni, perché al suo datore di lavoro conviene assumere lavoratori giovani che hanno un costo inferiore, come fa a trovare un nuovo lavoro in una società con un tasso di disoccupazione alto e con difficoltà enormi a trovare lavoro anche per i giovani?

Ancora oggi Eugenio Scalfari nel suo editoriale su Repubblica diceva che la questione si gioca molto sull’emotività, perché l’approvazione della riforma, dal contenuto irrilevante, servirebbe a tranquillizzare i mercati. Del resto le statistiche sui procedimenti per controversie di cui all’art. 18 pare che siano numericamente irrilevanti. Forse perché il significato emotivo della norma ha finora frenato il ricorso ai licenziamenti individuali; anche se negli ultimi tempi anche grosse aziende come la Fiat hanno provato a forzare la tradizione (vedi il licenziamento dei sindacalisti di Melfi). E non potrebbe ora succedere il contrario con la nuova norma che potrebbe diventare un incoraggiamento simbolico per le aziende a licenziare? E che ne sarà di un lavoratore licenziato ingiustamente che si rivolgerà al giudice del lavoro, in un sistema che prevede la decisione al massimo entro sessanta giorni ma che, nella realtà, se va bene, decide dopo cinque anni?

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