È giusto far crescere i figli nel bosco?

Avrete sentito anche voi questa storia. Dapprima sussurrata dagli alberi. Nel 2016 una coppia australiana benestante si è trasferita in Italia, scegliendo di vivere nei boschi vicino a Vasto, in Abruzzo. Lì hanno ristrutturato un’ex casa colonica, dotandola di pannelli solari e una stufa a legna. Vivono in modo autosufficiente: usano un bagno secco, attingono acqua da un pozzo e da una sorgente vicina, coltivano un orto, curano alberi da frutto e allevano animali da cortile senza macellarli.

Dal loro arrivo sono nati tre figli, in un ospedale della provincia di Teramo. Ho ascoltato le interviste. I bambini, di 6 e 8 anni adesso, seguono l’istruzione parentale — con esami regolari a fine anno — e sono (così almeno avevo letto qua e là) vaccinati e curati da un pediatra e in buona salute. La famiglia non è totalmente isolata: possiede un’auto, fa la spesa nei centri vicini e mantiene contatti con altre famiglie.

Dopo un’intossicazione da funghi avvenuta lo scorso anno, la magistratura ha iniziato a indagare sul loro stile di vita. La Procura ha recentemente chiesto la revoca della responsabilità genitoriale e l’allontanamento dei figli (che sarebbe comunque doloroso e traumatico), decisione su cui il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila dovrà pronunciarsi.

Intanto, alcuni media e social hanno trasformato il caso in un “processo mediatico”, descrivendo la famiglia come isolata, priva di elettricità, assistenza sanitaria e istruzione. Tuttavia, diverse fonti ribadiscono che i bambini sono seguiti, sani e sereni, e che la famiglia, pur vivendo in modo alternativo e sostenibile, non viola alcuna legge italiana. 

Il diavoletto che c’è in me mi fa immaginare, scherzando. Vuoi salvarti dalla vita moderna? Dalla civiltà tecnologica, dalle angosce? A contatto con la natura? Nella pace del bosco? In una favola?

Ecco, io, per cominciare, non potendo fare altro, regalerei di nascosto a questi bambini i cellulari. Li inserirei in 14 chat di classe (incluse persino quelle delle mamme!). Li collegherei a 27 videogiochi interattivi di gruppo. Li iscriverei al basket in Dad. Insomma, aspettando il resto, intanto li sprofonderei in un bagno di lurdissima e sulfurea modernità. Perché il bosco isolato va bene. Ma solo se sei Cappuccetto Rosso e hai settant’anni.

Ma ora torno serio. Vi confesso. Non lo so. Non ho certezze a riguardo.

Il caso solleva una domanda più ampia e filosofica: davvero vivere immersi nella natura, lontano da modelli urbani inquinati e consumistici, può essere considerato un pericolo per i propri figli?

Non ho appunto una risposta definitiva. Nondimeno nutro sempre alcune perplessità sulle soluzioni radicali ed “esasperate”. Credo che, piuttosto che fuggire, dovremmo agire il cambiamento. Nelle piccole scelte quotidiane. Il vero coraggio e la vera forza sarebbero in questo: restare. Per salvarli, non occorre privare i più piccoli in età evolutiva della scuola, dello sport e della piena socializzazione nell’ordinario. E la vita a contatto con la natura è pedagogica e meravigliosa, ma solo se non rappresenta un taglio con il resto e contempla tutti i colori dell’orizzonte del nostro tempo. La fuga dai veleni e dalle contraddizioni di una società tossica e una normalità disfunzionale? Cominciamo col cambiare alcune abitudini di vita quotidiana. E a parlare di più coi nostri figli. Ad essere più presenti. A regolamentare l’uso dei cellulari. A riempire con più attenzione il carrello della spesa. Questa è la vera sfida. Un genitore disposto a crescere, saprà farlo ieri in montagna, domani a mare, oggi nella casa di città. Perché la felicità non è un luogo. È un’attitudine. Un talento. Il talento di sostare nella normalità senza soccombere e senza scappare. Disegnando ogni favola con il proprio stile personale e con l’immaginazione di tutti i bambini liberi di scegliere.

Perché la felicità non è un luogo. È una storia.

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