IL CORPO MACCHINA E L’OMINO CHE PIANGE

Chiunque abbia fatto l’esperienza di passare attraverso la ragnatela di consulti, visite, diagnosi, esami, per essere sprofondato in quell’ambiguo e indefinito malessere che canonicamente e superficialmente viene detto “stress” sa, sulla sua pelle, che cosa è il limite della medicina occidentale.

Quella cosa che in altre numerose occasioni abbiamo chiamato “medicina oggettiva” svela pienamente e senza incertezze la sua essenza nell’esperienza concreta del suo confine, nel momento in cui la logica che la struttura fa cilecca e il soggetto che soffre viene lasciato solo a cercare la sua definizione, la sua chiave interpretativa.

“Medicina oggettiva” è uno dei tanti nomi che si dà la scienza e l’arte medica occidentale, che ha visto – nei trascorsi ultimi tre secoli – un tumultuoso quanto problematico sviluppo, contrassegnato dall’adesione al paradigma del corpo/macchina, nozione antica ma glorificata dalla filosofia cartesiana, che ha aperto la stagione del razionalismo e del sapere positivo.

Un paradigma che ha amplificato la concezione della natura meccanicistica del corpo umano, della sua sezionabilità, della sua “riparabilità”.

Le svariate sindromi associate al concetto di stress sono lì a ricordarcelo: se una cultura perde il contatto con il suo tutto, con il suo insieme, brancola.

Fibromialgia, vulvodinia, sindrome di affaticamento cronico, sindrome delle gambe senza riposo, e così via, in un crescendo terminologico che tradisce, nella sua spiazzante varietà, l’incertezza semeiotica ma ancor più eziopatogenetica dei suoi quadri.

Il soggetto che si dimena dentro una tale palude sperimenta frontalmente l’inefficace pretesa di prendersi il merito di definire i sintomi e inquadrarne il significato nosografico entro i confini di una singola specialità: la fibromialgia, sindrome multifattoriale del dolore migrante, ha in comune con svariate altre sindromi e persino con alcune “malattie” una serie interminabile di sintomi, il più rappresentativo dei quali è probabilmente  la stanchezza cronica, l’astenia. E dunque, diremo che si tratta di malattia reumatica? O piuttosto di una alterazione neurologica? O invece di una patologia psichiatrica? O neuroendocrina?

Il corpo/macchina non è poi così facile da imbrigliare e costringe prepotentemente a riformulare le coordinate, e  proprio quando entra in scena l’omino che piange. L’omino/homunculus di cartesiana memoria che esprime simbolicamente il diritto alienato del soggetto di parlare attraverso le vicende del corpo, posto che tale diritto è stato censurato sul piano delle emozioni e del pensiero. L’omino che grida, attraverso gli accidenti del corpo, per segnalarci che il sistema si è incartato con i suoi stessi rimedi naturali , un po’ come succede quando tre giorni di postura insana, successivi ad un episodio di contrattura lombare, producono uno stato disfunzionale che diventa difficile da correggere: ecco, forse il punto è questo, oltre la metafora antropomorfa, nell’equilibrio interrotto, nell’omeostasi perduta, nello scompaginamento dei “soliti” meccanismi di autoriparazione.

Chiunque voglia esplorare uno spazio di condivisione, di confronto su questo tema è consigliato caldamente di consultare il sito www.vulvodiniapuntoinfo.com, fondato e gestito con competenza e passione da una persona speciale, che si confronta con un tema speciale: Aida Blanchett. Che qui ringrazio per esserci!

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