VERDETTO FINALE

Ve lo dice uno che non ama la televisione: se non volete perdervi un programma che vi tiene incollati al divano per l’ora abbondante in cui va in onda allora non mancate “Verdetto Finale”, su Rai Uno poco dopo le 14.

Si tratta, come è facile intuire, di un format alquanto abusato, quello del processo in TV. Ma la sua realizzazione propone numerosi spunti di riflessione che vanno al di là della intrinseca qualità della trasmissione stessa.

Un conduttore introduce il tema del giorno, vale a dire la “questione” del conflitto fra due soggetti. Un trio di “esperti” partecipa alla trattazione dell’argomento, inframmezzando coi loro interventi il normale svolgimento del “processo”, che si avvale canonicamente di un giudice e di due avvocati, i quali ultimi interrogano i due soggetti (ovviamente ognuno dei legali interroga la controparte) e fanno l’arringa finale.

Una giuria “popolare” sentenzia alla fine del dibattimento.

Questa è la struttura del programma, che risponde ad una precisa esigenza di audience, nella sua rapida e schematica scansione dei passaggi. Ciò che, in realtà, vale la pena di notare è qualcosa che – come dire? – trasuda dalle righe del format, una sorta di efflorescenza sintomatica della sua imperfezione. Mi sentirei intanto di affermare che una linea di faglia interessante è quella che separa l’universo legale o giuridico dall’universo culturale (nelle sue diverse declinazioni psicologiche, sociologiche, giornalistiche, ecc.). Il contrasto fra i linguaggi praticati ed agiti nei due ambiti non solo non è quasi mai sanato ma, addirittura, è quasi sempre amplificato dalla necessità di farli convivere nello stesso ibrido rappresentativo.

Ciò che gli “esperti” si sforzano di penetrare, sia pure spesso dozzinalmente, con un atteggiamento mentale analitico e circolare, gli avvocati poi si incaricano di costringere, con una buona dose di violenza simbolica, negli schematismi giudiziari del tutto o niente, della colpa o, per dirla nella sua versione aggiornata e moderna, dell’addebito e dell’innocenza.

Il ruolo degli esperti è spesso ridotto a decorazione linguistica di sentimenti, pulsioni, convinzioni e false coscienze adusi ad abitare i format televisivi: ciò che la “gente” normalmente, nella infinita varietà delle ovvietà, pensa e dice di simili questioni, lontana dalla complessità e dalla umile rassegnazione di fronte alla contraddizione del reale, gli “esperti” lo riformulano in un frasario appena più dotto ma sostanzialmente altrettanto “normalizzante” rispetto ai canoni statisticamente affermati del “buon senso”. Particolarmente emblematica in questo senso appare la funzione degli psicoterapeuti, i quali dimostrano come, allontanati dal luogo in cui si consuma l’inferno dei conflitti, prediligano conformarsi alle più becere “regole” della creanza, finendo sempre per aderire ad un pensiero omologato in cui tutto è triturato nel mixer della morale borghese imperante (con il relativo tasso di ipocrisia costituzionale).

Gli avvocati, che fanno quasi sempre la faccia truce e si compongono in un atteggiamento al limite del cafone, conducono i loro interrogatori percorrendo la logica retorica della conclusione che sta prima delle premesse: il dialogo con gli interrogati appare sovente, infatti, un dialogo fra sordi!

Possiamo senza dubbio dire, senza pena di essere tacciati di un qualche interesse, che la figura migliore la fa il giudice, che si sforza di dare una parvenza di formalità all’evento, che disciplina gli interventi dei due agguerriti avvocati (ognuno dei quali si presume abbia avuto il compito di difendere uno dei due contendenti mediante il lancio della monetina, fatto che non li esime dal recitare una partecipazione emotiva totalizzante alle ragioni del patrocinato….)e che, chiestogli prima del verdetto finale cosa dica “la legge”, dà sistematicamente lezioni di precisione e di lucidità.

Direte: grazie, gli è facile. I codici sono quello che sono: un linguaggio che ha la funzione di irrigidire la realtà al fine di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Affascina, per questo, la sua concomitanza con gli esiti spesso totalmente difformi della giuria popolare, che quasi sempre “giudica” di pancia, ma – intendiamoci – di quella pancia ammaestrata dal pensiero omologato della televisione di stato!

Guardatelo e poi mi fate sapere……

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it