UNA STAGIONE ECCITANTE

La fine degli anni ’60 è stato uno dei momenti più esaltanti della storia del costume.

Tutto sembrò possibile. Il mondo era percorso da tensioni esplosive, dalla parte occidentale al più estremo oriente, e svariati sovvertimenti ridisegnavano scenari, gerarchie, equilibri ormai pronti a imporsi.

C’era tanta energia. C’era tanta ideologia. C’era anche tanta ingenuità. Ma c’era anche una incredibile efflorescenza di creatività. Al punto che da lì a poco si coniò lo slogan “l’immaginazione al potere”.

Sui giorni di Woodstock si sono spese pagine e pagine ma la migliore testimonianza resta quella – un po’ raffazzonata ma adatta allo spirito del tempo – del film di Radleigh, che immortala quell’interminabile raduno, per giorni e giorni fra fango, pioggia, erba e musica, culminante nel lisergico Star Splanged Banner di Hendrix, con la sua chitarra lancinante che grida al mondo il desiderio, la fame di cambiamento. Una curiosità da richiamare: uno degli aiuti registi del film era il grande (allora sconosciuto) Martin Scorsese.

Negli stessi giorni del festival, Miles Davis entrava negli studi della Columbia per registrare – in una lunghissima session discografica – il capolavoro Bitches Brew, il cui album fu graficamente realizzato da quel genio di Mati Klarwein. La musica che ne venne fuori è una delle esperienze più sconvolgenti che chiunque ami la musica può essere in grado di fare. Una pozione ipnotica, un rito tribale, una “brodaglia” di suoni e timbri e ritmi dentro cui si agitano il jazz, l’Africa e il rock, trasfigurato dalle sue metriche binarie, dalla sua scansione heavy, in una figurazione astratta, eterea quasi. Sentite Miles runs the woodo down e capirete chi era Miles Davis.

Se poi proprio volete conoscerlo a fondo, non vi rimane che dare un’occhiata al libro di Gianfranco Salvatore Lo sciamano elettrico, il cui titolo ribadisce la dimensione magica, tribale appunto, in cui si colloca l’opera di cui sopra. Ne risulta una lettura appassionante di uno dei più competenti musicologi italiani, resa ancora più avvincente dalla analisi minuziosa della svolta elettrica di Davis, preannunciata in album come Filles de Kilimanjaro e conclamata in quell’altro capolavoro che è In a silent way.

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