ULISSE, UN EROE “DISAGIATO”

“Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la nave, la nostra voce a sentire. Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose” (…) “Così dicevano alzando la voce bellissima, e allora il mio cuore voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi, coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano”.

Cosa cantano le Sirene? Perché sono fra i pericoli più temuti ma affascinanti per l’eroe Ulisse? Perché la necessità di ascoltarle nonostante la paura di morire?

In quel canto, in quel prato fiorito in cui Omero racconta siano finiti tutti i viaggiatori precedenti, credo ci sia, d’accordo con le più  autorevoli interpretazioni letterarie, il racconto dell’Odissea stessa. Il canto delle Sirene è pericoloso e fatale perché racconta la storia di Ulisse, omaggiandolo ed esaltandolo, anche in maniera seduttiva, ma rendendogli soprattutto malinconia e nostalgia. Un canto che spesso si trasforma nella voce della moglie Penelope, del figlio Telemaco e della sua Itaca.

È un discorso sentimentale, quindi per questo irresistibile per Ulisse, che in quel momento non è un eroe ma nient’altro che un naufrago lontano da casa, dalla famiglia. Al canto delle donne-uccello che esprimono una ragione non solo intellettuale, di sete di conoscenza, ma diremmo affettiva, è rimesso il senso del vero pericolo da cui Ulisse deve difendersi. 

Sindrome di Ulisse. Cos’è? Oggi si parla di “Sindrome di Ulisse” per indicare il disagio dei migranti che si trovano a vivere per un periodo abbastanza prolungato situazioni estreme, sia riguardo al loro esodo che al loro arrivo sulla “terra promessa”. Gli immigrati più colpiti dalla Sindrome d’Ulisse sono, spesso, quelli che non possiedono un regolare permesso di soggiorno, ma non vi sono comunque grandi distinzioni: dal terrore sperimentato durante l’odissea all’ansia di dover trovare subito un lavoro e mandare soldi alla famiglia lasciata nel paese d’origine, sono queste le condizioni che alimentano la sindrome. Il tutto, molto spesso, vissuto in totale solitudine. Le aree più colpite sono quelle dell’umore, causando stati di confusione, d’ansia, sintomi depressivi e anche dolori somatici.

Solo qualche anno fa la Sindrome di Ulisse non esisteva ancora, oggi sono circa 600.000 le persone che ne soffrono, 300.000 in Italia. Questi numeri arrivano da un team di psichiatri europei che hanno organizzato una conferenza al Parlamento europeo cercando di catalizzare l’attenzione pubblica su un problema esistente che necessita di giuste soluzioni.

Una variante interessante della Sindrome d’Ulisse è quella che nei Paesi dell’Est è nota come Sindrome Italia. La Sindrome Italia, a differenza di quella di Ulisse, riguarda gli immigrati che rientrano nei loro Paesi d’origine, dopo aver trascorso del tempo considerevole in Italia. Le più colpite sarebbero soprattutto le donne dell’est, numerose provenienti dalla Moldavia, dalla Romania e dall’Ucraina e arrivate in Italia spesso come badanti. Sono stati due psichiatri ucraini, Kiselyov e Faifrych, a diagnosticarla per la prima volta in alcune donne che lavoravano in Italia, notando in loro una grave forma di depressione, e una forte crisi di identità, alimentate dall’essere state delle madri lontane dai loro figli e dalla terra degli affetti in generale.

Come accogliere l’appello degli psichiatri? Aumentando le barriere e il controllo ai confini o creando un approccio mirato al problema immigrazione?

Sarebbe molto utile e preventivo lottare contro il lavoro clandestino e contro chi lo permette, puntando ad una “sana” integrazione degli immigrati nella società, un’integrazione che sia favorita ovviamente da entrambe le parti. Questo significa che di certo molto dipende anche dal singolo individuo/immigrato: più questi possiede sufficienti capacità di elaborazione e risorse personali, più riuscirà a superare la crisi e ad impegnarsi in un vero processo di integrazione, a patto che la società glielo permetta, da un punto di vista sociale ma anche psicologico, lavorativo, educativo, religioso.

Quanto queste persone sono “dentro” per ognuno di noi? Quanto sono “barbari” nel senso di nemici? Quanto li crediamo minaccianti?

Ulisse in molti dei suoi viaggi ha incontrato mostri pericolosi, ma molto spesso ha incontrato accoglienza, calore, amore. La nostalgia di Itaca, in quei casi, era meno amara e più sopportabile e la sua presenza diventava preziosa per chiunque lo incontrasse e ospitasse come un amico e non come un nemico.

(Il mio contatto e-mail per i lettori: ammatuna.d@alice.it

 

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