Tra i potenti e la povera gente di Carlo Ruta

Coordinandosi con le difficoltà del tempo, il clero adottò, in via generale, una linea minimalistica. Ritiratasi dalla politica e dagli affari di Stato, la Chiesa scelse di correlarsi con la vita reale, delle città e delle campagne, occupando gli spazi sociali che, per via delle nuove contingenze, erano ancora preclusi allo Stato sabaudo, che d’altronde, prima da Torino, poi da Firenze, infine da Roma, imponeva la propria autorità con l’attivismo, più o meno truce, dei prefetti. A dispetto di tutto, essa continuò a interessarsi dell’educazione dei ragazzi. La legge Casati del 1859, che laicizzava l’istruzione, se aveva escluso infatti l’insegnamento religioso dalle scuole superiori, lo manteneva in quelle elementari. Per alcuni limiti formali in sede legislativa, la situazione rimaneva tale d’altronde dopo il varo della riforma Coppino del 1877. Come bene avrebbe rilevato Gramsci, la chiesa cattolica, forte del proprio radicamento, tanto più nel Mezzogiorno rurale, era legittimata comunque a rappresentare il mondo contadino, in condominio con il nascente socialismo. Se nella prassi politica le ragioni laiciste rimanevano allora preponderanti, sul terreno sociale, il prete, il vescovo, altre figure del clero, rimanevano essenziali. E soprattutto a quel punto in Sicilia come altrove, il mondo cattolico, fu indotto a coinvolgersi nelle questioni, a dividersi quindi, fino a rivelare due anime, compatibili e tuttavia distanti.

 

Da una parte si manifestava una Chiesa liturgica, che associava la tradizione al censo, il latinorum alle istanze dei potentati territoriali. Era già in cammino, evidentemente, la Chiesa che avrebbe prevalso nel primo Novecento, dagli anni del fascismo al dopoguerra. Dall’altro lato si poneva in gioco il cattolicesimo sociale, quello della povera gente, che con poche risorse ma con princìpi irrinunciabili avrebbe scortato le emergenze del secolo e di quello successivo. Con l’enciclica Rerum Novarum, Leone XIII cercò di trovare un punto di mediazione tra tali due realtà, riconoscendo legittimità alla questione operaia, mentre in Sicilia, da Caltagirone, il prete Luigi Sturzo maturava l’idea di un movimento politico, che chiamasse in causa la questione meridionale, facendo leva sul mondo contadino, attraverso gli strumenti della cooperazione, delle casse rurali, per combattere l’usura, dell’associazionismo. Negli anni della Destra come in quelli della Sinistra la questione contadina andò giocandosi in ogni caso nelle città, nelle borgate, nelle campagne, talvolta con effetti clamorosi, come quando, sotto il governo Crispi, la crisi economica, accentuata dalla guerra commerciale con la Francia e dalla diffusione della fillossera, che già negli anni ottanta aveva distrutto gran parte dei vigneti siciliani, fece erompere i bubboni del latifondo e delle miniere di zolfo. Le due linee del mondo cattolico emergevano allora con perentorietà.

 

I Fasci dei lavoratori, che percorsero la Sicilia nei primi anni novanta, non coinvolsero solo contadini ed operai sensibili alle dottrine socialiste. Nelle piazze e nelle campagne, dove si manifestava contro le vessazioni feudali, con naturalezza i ritratti di Garibaldi e Mazzini venivano coniugati con le icone di Cristo e perfino dei santi patroni. Si trattava appunto del cattolicesimo più in basso, che, a dispetto di tutto, cominciava a interloquire con le associazioni socialiste. Altro fu invece l’atteggiamento del clero ufficiale, che in quasi tutte le diocesi censurò in modo emblematico il movimento, prendendo le difese dei latifondisti e dei proprietari di zolfare. In un primo momento il vescovo di Caltanissetta Giovanni Guttadauro dimostrò un qualche riguardo per le rimostranze popolari, ritenendo che non se ne potessero dissimulare le cause. Ma nel 1894, quando la repressione di Crispi chiudeva i conti con i Fasci, con il risultato di oltre 150 morti, precisò la propria opinione, affermando che le plebi erano state illuse «da istigatori malvagi e da ree dottrine». E in modo analogo si espressero altri prelati, dal vescovo di Noto Giovanni Blandini, che definì «stoltizia» l’aspirazione a una distribuzione equa dei beni, al cardinale di Palermo Michelangelo Celesia, che si congratulò di persona con commissario regio Roberto Morra di Lariano, pianificatore delle stragi che posero fine al movimento.

 

Negli anni successivi il cattolicesimo dal basso continuò a operare in difesa della dignità umana. Nei primi decenni del Novecento ebbe pure i suoi morti, come Giorgio Gennaro, ucciso a Ciaculli nel 1916, Costantino Sella, ucciso a Resuttano nel 1919, Stefano Baronia, ucciso a Gibellina nel 1920. Introdottasi nel nuovo ordine di cose, la Chiesa ufficiale assumeva invece lo status di potere fra i poteri, con la sanzione dei Patti Lateranensi. La continuità di tale status negli anni della repubblica fu poi un esito congiunto del ceto politico guidato da De Gasperi e delle gerarchie di Pio XII. Alla guida dell’arcidiocesi di Palermo finiva a quel punto il cardinale Ernesto Ruffini, secondo cui la mafia era solo un’invenzione per colpire la DC e i siciliani. Con l’avvento di Giovanni Roncalli e con i percorsi della Chiesa post-conciliare pure nell’isola si sarebbe aperto comunque il tempo delle rettifiche.

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