Un intervento straordinario, che segna una svolta nel campo della donazione di organi in Sicilia e rappresenta un traguardo significativo per la medicina trapiantologica italiana. All’Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti Villa Sofia-Cervello di Palermo è stato eseguito con successo un delicato prelievo di fegato da un paziente ultranovantenne, un evento eccezionale per l’età del donatore, che […]
Storie di Sicilia: Cocomero…. il frutto più amato dell’estate nell’antico borgo “Mazzarelli” anni ‘60
23 Giu 2025 08:31
“Dismettere il gesto infantile di affondare la faccia nella mezzaluna rosso acceso, riemergendone ristorati e ridenti solo per sputacchiare più o meno educatamente i semi, è come negarci un pezzo di allegria a costo zero (o quasi)”.
Luglio, col bene che vi voglio, è il mese torrido e vacanziero per antonomasia. Il frinire delle cicale e la puntina di un vecchio jukebox che accarezza il disco… neppure i migliori direttori d’orchestra o il più brillante frontman di una grande band saprebbero accordare così bene due suoni. Un ghiacciolo e la traccia giusta, scelta da qualche innamorato, da una mamma nostalgica, da uno zio bontempone… poco importa! Sulle spiagge italiane, negli anni ’60, ogni occasione era buona per mangiare un cocomero in famiglia sulle note di un “classicone” vecchia scuola.
I tetti delle povere FIAT 1100, delle 600, delle 500 e più tardi delle 124 (noi in famiglia avevamo la mitica 750 Giannini… di colore bianco), erano carichi di una soma importante: costumi retrò, sedie a sdraio, tavolini da campeggio, peperonate della nonna, parmigiana di melanzane della vicina, un cardigan serale in caso di venticello, riviste, bigodini e… cocomeri, soprattutto, dicevamo.I famosi cocomeri o angurie o meloni d’acqua… ognuno dice un po’ la sua a riguardo, a seconda della latitudine geografica. Questi fantastici frutti, simili ad un grande e verde pallone da rugby, erano i protagonisti indiscussi delle domeniche di fuoco sul bagnasciuga. Ad ogni angolo della strada c’era un chiosco o un piccolo ambulante prontissimo a rifilarne uno ghiacciato al capo-famiglia. E che estate italiana vintage sarebbe stata, altrimenti?
Cocomero o anguria: qual è il nome corretto
Il termine botanico, che deriva dal latino, è Cucumis citrullus: da qui deriva “cocomero”. Ma in realtà si tratta solo della prima definizione ufficiale, perché poi in epoca bizantina attraverso l’Esarcato di Ravenna cominciò a diffondersi il termine “angurion” di derivazione greca da cui deriva ovviamente “anguria”. Così sono rimasti entrambi, ma a ben vedere, ciascuno in una zona diversa: “anguria” è generalmente più utilizzato nelle regioni settentrionali, “cocomero” invece nel Meridione.
Metti “u muluni a mare” solo se è maturo…
L’anguria è simbolo di allegria e convivialità ma bisogna saper scegliere al momento dell’acquisto. I ragusani che villeggiavano nell’antico borgo “Mazzarelli” (l’attuale Marina di Ragusa…) conoscono tutte le tecniche per non avere brutte sorprese.Dal gusto inconfondibile, l’anguria è uno dei frutti più amati e gettonati da parte dei ragusani durante il periodo estivo. Questa delizia della natura, per chi non lo sapesse, è originaria dell’Africa tropicale. Addirittura, secondo i geroglifici dell’Antico Egitto, il suo consumo si protrae da più di cinquemila anni.
Ricaviamo pure notizia che, sin dal passato, era indicata con denominazioni differenti: infatti, oltre al noto appellativo di anguria, è uso condiviso soprannominarla anche cocomero.Inoltre, prestando fede alle fonti storiche, il cocomero incarna il simbolo dell’allegra convivialità. In più, una vecchia leggenda tramanda che per via della forma semi-sferica fu uno dei primi strumenti da gioco con cui gli dei erano soliti divertirsi. Rimanendo in tema mistico-religioso, suscita particolare curiosità notare come esso sia stato persino utilizzato come corredo funerario nelle tombe dei faraoni. Basti pensare che, simbolicamente, veniva lì deposto per garantire al defunto il sostentamento nell’aldilà.
Premesso ciò, adesso soffermiamoci sul legame che intercorre tra questo straordinario frutto e il capoluogo ibleo. Proprio qui, come tutti sapranno già, si trovano molti campi dedicati alla coltivazione del melone soprattutto nelle terre vicino al mare.Molti di voi, quasi certamente, avranno sentito parlare della famosissima tradizione del “muluni a mare”. Con tale espressione s’ intende alludere all’antica usanza di far raffreddare il melone direttamente in spiaggia… (era una consuetudine consolidata degli anni ’60).
Detta in soldoni, questa consuetudine consisteva nello scavare delle buche profonde sulla battigia. In pratica, l’anguria veniva sepolta sotto la sabbia fino all’altezza del “piripicchio” e tenuta lì per l’intera mattinata. Dunque, attraverso tale espediente, il frutto si rinfrescava sul posto venendo lambito dalle onde del mare. All’ora di pranzo, precisamente alla fine del pasto, arrivava il felice momento di tirarlo fuori e degustarne la gradevolissima freschezza.Solitamente, per aumentarne la capacità dissetante, lo si assaporava con un po’ di limone spremuto sulle varie fette. Spesso, però, capitava che il sapore non fosse quello che ci si aspettava. A tal riguardo, entra in gioco la rara capacità di saperne riconoscere il giusto grado di maturazione al momento dell’acquisto. In gergo locale, codesta “abilità selettiva” prende il nome di “Bussata”.
Non a caso, quando ci si reca dal fruttivendolo o al supermercato, è prassi alquanto comune battere le nocche sullo strato esterno dell’anguria per carpirne lo “status” qualitativo. Tuttavia, per quanto si possa essere esperti nella così chiamata “arte del tocco”, sovente ci si imbatte in spiacevoli “sorprese” che deludono profondamente le aspettative dei consumatori.Un altro metodo, molto utilizzato, per riconoscerne la qualità è l’osservazione del già citato piripicchio, quando appare di colore verde, nella maggior parte dei casi significa che il melone è ancora acerbo e poco dolce. Se, al contrario, manifesta un “colorito” marroncino ci sono ottime probabilità che sia maturato al punto giusto. Ad ogni modo, una cosa è assolutamente certa: nella riviera di Marina di Ragusa non può esistere estate senza l’avvolgente e sublime gustosità dell’anguria.
Il cocomero ogni estate riesce a suscitare in me lontani ricordi o ispirare nuove sonorità…
Un ricordo che mi riaffiorava ogni nuova estate alla vista dei primi cocomeri è quello della cerimonia del cocomero. Mio padre era riuscito a trasformare la semplice consumazione di questo frutto tipicamente estivo in un evento speciale che gli consentiva di svolgere il ruolo di capofamiglia, di esprimere, a modo suo, affetto per la famiglia e di dispensare buon umore e serenità. Egli si occupava personalmente di questo compito in tutti i suoi aspetti, fase per fase, assumendo le vesti di un esperto cerimoniere. Cominciava scegliendo l’anguria in base a una tecnica che gli consentiva di capire se era matura: picchiettava la buccia e porgeva l’orecchio per interpretare il suono. Se il suono era sordo, il frutto conteneva di sicuro la polpa che avrebbe soddisfatto i palati dei suoi cari. Trasportava poi quel peso sferico di vari chili a casa e lo collocava nel lavatoio perché era troppo ingombrante per essere inserito all’interno del frigorifero a rinfrescare. Di solito utilizzava due metodi: acqua e ghiaccio o un filo di acqua fredda che usciva dalla canna del rubinetto per vario tempo.Alla fine del pasto, solitamente una cena, calava un’atmosfera carica di aspettative quando il cerimoniere portava in tavola l’anguria ormai pronta per essere servita. In quegli attimi si era in attesa di assaggiarne la polpa, come se fosse l’ambita sorpresa imprigionata da un uovo pasquale di cioccolata. Il mio caro padre “Vanninu inteso Testarossa” si appropriava di precisi strumenti di lavoro per svolgere il suo ruolo: un largo piatto circolare su cui porre l’anguria e un coltello ben affilato, di quelli adatti agli arrosti con cui tagliava, per prime, le due estremità ed esclamava immancabilmente:”Tagghiatu nà!”, il suono che avrebbe accompagnato l’uso creativo dei due pezzi di buccia. Suggeriva di prendere i due poli e, come se fossero due piatti di metallo, di batterli l’uno contro l’altro al ritmo cantilenante prodotto da “tagghiatu nà tagghiatu nà”; procedeva con il taglio a metà del cocomero e quindi al taglio delle fette da distribuire ai suoi familiari… Poi per consuetudine prendeva una parte del cocomero e la regalava alla famiglia di nostra “Commare Cascone” che abitava difronte a casa nostra nel “Cuttignu” in via Ioppulo a Ragusa Ibla. Quel suono lasciatomi in eredità da mio padre è rimasto legato in maniera indelebile nella mia memoria ai due poli dell’anguria.
Salvatore Battaglia
Presidente Accademia delle Prefi
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