Se i treni sono in ritardo la colpa è dei bidelli!

A volte, le discussioni sotto l’ombrellone prendono pieghe inaspettate. Si parte dalla classica e abusata frase ‘ai tempi nostri’ per finire agli ignoti motivi con cui i treni giapponesi riescono a spaccare il secondo, in partenza e all’arrivo. Il tarlo del dubbio ferroviario arriva a spodestare la forzata veglia nelle notti tropicali e la ricerca del perché riesce a insinuarsi tra altri legittimi e ben più importanti pensieri. Poi, come un lampo all’alba, arriva la netta conclusione.

Pochissime cose ci accomunano al Giappone: l’aspettativa di vita (loro 84 anni e 4 mesi, noi 81 anni e 1 mese), il fenomeno della progressiva denatalità e l’amore per il buon cibo, comunque con gusto e approccio molto diversi. Qualcuno ricorderà che alcuni nostri giovani sono malati di videogiochi esattamente come i pari età di Osaka o di Kobe, mentre una minoranza di adolescenti italiani ha adottato lo stile dell’Hikikomori – non uscire di casa per mesi o per anni – ma questo è campo per esperti, come il nostro psicoterapeuta di fiducia Cesare Ammendola.

Torniamo, dunque, alla puntualità dei treni, noi che esultiamo quando un Ragusa-Siracusa porta soltanto 10 minuti di ritardo e possiamo quindi prendere la coincidenza per il Continente, senza affannate corse con pesanti bagagli al seguito.

In un documentario uscito lo scorso anno, “The making of a japanese”, la regista anglo-giapponese Ema Ryan Yamazaki racconta le giornate nella scuola elementare Tsukado di Setagaya, un quartiere nell’ovest di Tokyo. Appena entrati, gli alunni depongono le scarpe negli scaffali all’ingresso dell’istituto, accanto al loro nome. Dal modo con cui sono disposte, un comitato formato da quattro alunni della sesta classe (lì la primaria dura sei anni) dà un voto ai più piccoli, lasciato su un foglio appeso accanto alla scarpiera. Eventuali discrepanze vengono persino fotografate e archiviate come prova documentativa.
Come informa la rubrica “In Asia” del settimanale Internazionale, “all’inizio dell’anno scolastico i più grandi assistono i più piccoli e insegnano loro come svolgere le molte attività previste dal curriculum oltre alle materie di studio: dare il buongiorno dagli altoparlanti, portare da mangiare ai conigli, sistemare il sapone nei bagni dove manca, pulire l’aula e i corridoi (non esistono bidelli), servire ai compagni il pranzo da consumare in aula, ognuno al proprio banco, insieme all’insegnante, in un lasso di tempo preciso scandito da un timer su uno schermo. Tutti contribuiscono alla vita collettiva della scuola, tutti svolgono un compito e sono spronati a farlo al meglio.”

Non esistono bidelli.

 
I giapponesi vanno a scuola da soli fin dalla prima classe, aiutati da un basso indice di criminalità e da una naturale predisposizione all’aiuto nei confronti dei più piccoli. In una società del genere, il collaboratore scolastico è una figura inutile perché sono gli alunni a svolgere le loro mansioni, con il cronometro a bella vista.
Esattamente il contrario di quanto succede da noi. Mamme e papà preparano gli zaini dei figli piccoli fino a pochi minuti prima di uscire di casa, li accompagnano e li riprendono all’ingresso di scuola, sotto lo sguardo vigile dei collaboratori scolastici. Anche quando i bambini della mia generazione andavamo a scuola da soli, il bidello era una figura fondamentale, custode dell’edificio scolastico e delle vite, pubbliche e segrete, degli altri frequentanti quei corridoi e pertanto, a volte, più importante degli stessi insegnanti. Immaginiamo, per un istante, una vita senza di loro: in provincia di Ragusa ce ne sono circa mille, oltre 12mila in Sicilia, 131mila in tutt’Italia.


Tutti ne ricordiamo qualcuno/a. Io uno in particolare, alle Medie.
Pietro Cannizzaro si presentava sempre con lo stesso completo: pantaloni di colore grigio e camicia che pensavo fosse scura così da non lasciare tracce evidenti dovute alle pulizie tra i banchi. Solo le maniche si accorciavano o allungavano, a seconda delle stagioni.

A un comizio – io che ammiravo l’arte oratoria, dal Partito Comunista alla Democrazia Cristiana senza tuttavia capirci niente – intuii perché Pitrinu, sempre in prima fila quando sul palco c’era il politico del Movimento Sociale, a scuola indossasse la camicia nera. Se c’era da suggerire un provvedimento disciplinare, in pratica quasi tutti i giorni, Cannizzaro non si tirava indietro: “Professore, ci metta una puntina sul registro a questo delinquente!”

Nelle grandi manifestazioni sportive è usuale vedere in tv o in foto gli spogliatoi lasciati in perfetto ordine dagli atleti giapponesi, mentre i loro tifosi si attardano in tribuna per raccogliere ogni cicca finita a terra in un momento di comprensibile esultanza o composta delusione, apparendo molto più lontani dei quasi 10mila chilometri che separano i due Paesi.
All’ingresso, anch’egli puntuale come un treno dell’estremo Oriente, Pitrinu ci guardava ed esclamava con voce di baritono il proprio motto: “A prima cosa è l’ordine!”

Se l’avessero conosciuto, i giapponesi ne avrebbero fatto il primo bidello della loro storia. In quanto ai treni in orario, chissà. 

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