RAGUSA COME SOGNO

Se è attuazione di sogni ancestrali il poter volare con gli uccelli e navigare coi pesci, penetrare nel corpo di gigantesche montagne, inviare messaggi con la rapidità degli dèi, scorgere e udire ciò che è invisibile e lontano, sentir parlare i morti, affondare in miracolosi sonni risanatori, vedere con occhi vivi l’aspetto che avremo vent’anni dopo la morte, nelle notti sfavillanti esser consapevoli di mille cose al di sopra e al di sotto di questo mondo, che nessuno conosceva prima; se luce, calore, forza, godimento, comodità sono i sogni primordiali dell’uomo, allora la ricerca odierna non è scienza soltanto: allora è anche magia, è un rito di grandissima forza sentimentale e intellettuale, che induce Dio a sollevare l’una dopo l’altra le pieghe del suo manto, una religione la cui dogmatica è retta e penetrata dalla dura, agile, coraggiosa logica matematica, fredda e tagliente come una lama di coltello. Certo è innegabile che secondo l’opinione dei non matematici tutti questi antichissimi sogni atavici si sono avverati in modo totalmente diverso dall’immaginazione primitiva. Il corno da caccia di Münchausen era più bello di una voce conservata in scatola, lo stivale delle sette leghe era più bello dell’automobile, il regno di re Laurin era più bello d’una galleria ferroviaria, la magica radice della mandragora era più bella d’un fotogramma, mangiare il cuore della propria madre e capire il linguaggio dei passeri era più bello di uno studio zoopsicologico sulle modulazioni espressive e affettive nella voce degli uccelli. Noi abbiamo conquistato la realtà e perduto il sogno. (Robert Musil)

 

Io mi ricordo, sin dalla prima infanzia, da sciclitano, che il solo cenno a Ragusa mi spostava in un luogo altro, forse non ben descrivibile e tanto meno veritiero, ma che tuttavia sussisteva sulla certa diversità dal resto dei comuni della provincia. E i primi viaggi, sì viaggi!, specie quelli che culminavano nella lunga salita del pizziddo, non delusero mai questa mia aspettativa di esotismo. Magari un esotismo nordico, poiché le nebbie, gli algidi palazzi del centro urbano ornati di leggeri fregi floreali e semplici linee di fine ottocento, il freddo, e malgrado le assonanze tra serra e sierra, le lunghe vie che dalla cima scendevano fino a un’ancora più vaga Ibla, non potevano che farmi pensare alla Mitteleuropa piuttosto che alle coste nordafricane, anche se allora non avevo alcuna consapevolezza precisa di tutto ciò. Mi onoravo di essere provinto da chi si adornava di una sì splendida ampia piazza dall’andamento circolare e da fabbricati chiari, luminosi, svettanti verso il cielo eppur solidi alla base. Ero ancora troppo giovane per potermi adontare delle ragioni politiche di quegli spazi, di quel monumentale palazzo delle Poste ad esempio. Questa città di ponti, e il ponte è simbolo delle capacità umane, del suo progredire come umano, il sogno dell’uomo che non si ritrae e non aggira l’ostacolo, ma lo supera con un balzo, era il bisogno di certezza nel fondamento della ragione. Del resto, il ponte è forse tra le vicende ingegneristiche quella che più avvicina l’umano agire a quello divino. E poi tutto quel verde, tutti quegli alberi, che non avevo mai visto nei paesini limitrofi, neanche nell’antica Modica, le alte montagne prive degli apicali verticismi canonici di cui avevo una minima esperienza dalle raffigurazioni dei libri di scuola. Persino le aree industriali, di cui avevo un maggior sentore nel momento in cui si intraprendeva il viaggio di ritorno, nell’immaginario fanciullesco mio, mi inducevano a credere che una ragione sognante sovrintendesse la natura caduca di chi pur ha ricevuto il dono di vivere accanto alle onde del mare. Che posto era mai quella Ragusa, dove ogni professionista doveva far capo, centro del commercio e delle ambizioni civiche?

 

Quella mezz’ora di strada da Scicli a Ragusa, nel corso degli anni fu sempre più disertata, e nella mia adolescenza cominciai a vedere il capoluogo come un posto ancor più lontano, invisibile, oltre quelle alte colline che scrutavo da san Matteo. Forse addirittura un luogo inesistente. Si aggiunsero gli sfatamenti delle superstizioni di certezza, e non faccio fatica ad esprimere un certo rammarico in merito agli sfasci che le determinazioni assolute di ogni tempo possono generare. Poi, i motivi di studio, le ragioni affettive e la necessità dell’altrove, mi ricondussero alla Montagna Magica. Trovai Ragusa come un vecchio raffinato sanatorio abbandonato, eppure in buona conservazione. Gli alberi erano anche più numerosi di quelli che ricordavo, le ampie strade pulite e i palazzi eleganti ancora lì. Per quei pochi anni di università iblea, ultimo sogno disilluso di una provincia demolita, nei momenti di pausa tra le lezioni, ho passeggiato lungamente, esplorando gran parte di Ragusa Superiore, beandomi ancora del liberty e degli squarci verso Ibla. È stato quello un momento, se vogliamo anacronistico, in cui tutto il meglio del novecento (repressi gli istinti violenti e le ideologie totalitarie), doveva incunearsi sui dubbi del nuovo millennio. Non un arretramento, ma un ponte. La città è un segno distintivo novecentesco, così come i paesi (non dico comuni, perché la feudalità meridionale mi impedisce accomunamenti) furono la base prerisorgimentale dell’intera penisola.  Il senso di vivere la città è oggi dimenticato, avvilito dai bisogni dell’uomo che divengono ammorbanti di ora in ora. Così basta solo un posto letto, dove attendere il sorgere del mattino per riprendere le faccende estranianti del giorno prima. No, non è lavoro, perché quello dell’uomo moderno-contemporaneo non produce alcun sano profitto, ma solo finzione di sussistenza e indebitamento futuro. Certo, occorre essere realisti, e purtroppo lasciar stare i sogni, ma una passeggiata a Ragusa val sempre la pena, chissà che non risulti utile come premessa a chi deve ridiscendere a valle, per affrontare il mondo.

 

 

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it