Noi adulti dovremmo spiegare le guerre ai bambini. Se le avessimo capite

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Anche le parole del Papa entrano, come lame, nel cuore degli scenari di guerra, che si infiammano ogni giorno dinanzi agli occhi di tutti. Bambini inclusi. 

“Che è successo, mamma? Perché quelle case col fumo? I bambini là stanno morendo?”

Ho già scritto a riguardo.

Sono solo alcune delle odiose domande che i bambini non dovrebbero mai porsi e che oggi invece …

Le istantanee dall’Ucraina e dalla Palestina in tv folgorano anche i più  piccoli, tanto che è impossibile nascondere l’orrore ai loro occhi e pensieri spersi ovunque. È sovente arduo tenere lontani i bambini dagli adulti, che tradiscono essi stessi le loro paure più imprendibili.

Sarebbe meglio nascondere ai bambini la verità?

Non esiste una ricetta universale. Bisogna leggere l’unicità del bambino che è dinanzi a noi. Il suo tempo. Il contesto della relazione. La costellazione di cose che ci dice il suo non verbale. È indispensabile ispirare un clima di autentica curiosità e rispondere alle domande dei bambini nel loro linguaggio. Noi, in linea del tutto teorica, disponiamo di più informazioni e di una consapevolezza che il bambino non può avere. Nella realtà gli adulti  brancolano spesso nel buio come degli analisti geo-politici bendatissimi. O faziosi come tifosi ideologici.

“Se mi nascondono tutto, allora è qualcosa di veramente grave.” Se il bambino ha già arguito alcune cose, intuendo e respirando un clima, un’atmosfera di cose non dette e apprensioni in maschera, potrebbe temere che, se ora non gli diciamo niente, è per mancanza di fiducia nei suoi confronti. Sarebbe una ferita nella profondità di una squalifica.

Condividere con lui le informazioni lenisce la sua paura e incrementa la sua autostima. Nel rispetto e nella lealtà della trasparenza.

Dapprima però è essenziale misurare il suo interesse per il tema della attuale guerra. Se la motivazione non sussiste (neppure sotto il velo della comunicazione superficiale), è inutile affrontare la questione.

Al contrario, se non affiora l’interesse solo per timore delle nostre risposte e tuttavia si avverte un clima teso, possiamo dare degli input al dialogo.

Dobbiamo stare attenti ad evitare una “comunicazione autocentrata, egosintonica e autoreferenziale”: dobbiamo rispondere alle loro domande, non alle nostre. 

Scegliamo di affrontare solo il risvolto sul quale esprimono la loro curiosità. La complessità di trattazioni oceaniche li confonderebbe.

D’altro canto, se percepiscono da parte degli adulti omissioni e reticenze, questo alimenterà la loro ansia. Se si accorgono che i genitori mentono per rassicurarli, dinanzi all’evidenza della realtà, si chiuderanno nella delusione e nel sospetto.

La famiglia e la scuola dovrebbe preparare i più piccoli alla vita. Al suo dramma. Alle sue trame d’angoscia. Alle ingiustizie più crudeli. Proteggere i bambini in una bolla ovattata non avrebbe senso.

E però c’è un tempo per ogni verità. Contrariamente ad alcuni miei colleghi, penso che sia doveroso da parte nostra mostrare l’inferno ai bambini solo quando i loro occhi sono in grado di capire i confini. Dalla giusta distanza. Senza esserne sopraffatti.

E comunque, l’unica certezza è che purtroppo non serve raccontare l’inferno ora a molti bambini: lo stanno vivendo in prima persona.

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