NELLA GESTIONE MANCINI TRACCE DI UTILE AUTARCHIA

La situazione italica non è ideale ma questa Nazionale meriterebbe antichi cantori come Emilio Colombo, Bruno Roghi, Gianni Brera, Antonio Ghirelli, tecnici della poesia, poeti della tecnica. Questa Nazionale ha tanti meriti: quando vince ti rallegra, anzi, ti fa addirittura sentire italiano proprio nella stagione del disfattismo; eppoi titilla il sentimento nazionale anche per molto meno, addirittura per il colore di una maglietta. Azzurro? Verde? Certo è una novità disfarsi di uno degli Inni nazionali (Fratelli d’Italia, ‘O sole mio, Romagna mia, Volare e appunto Azzurro) per buttarsi sul futuribile (forse “Nel verde” di Max Gazzè, sul Verde Rinascimento o Verde Greta che sia). Tanto, che cambia?, basta vincere. L’unico dubbio era legato a fattori scaramantici, perché quando l’Italia giocò in verde un’altra volta, nel dicembre del ’54, per non confondersi con l’Argentina, subí poi una serie di sventure culminate con l’esclusione dal Mondiale 1958. Io preferisco, per chiudere la pratica, suggerire al presidente federale Gravina di cercare un posto nella storia del calcio italiano non solo per avere cambiato il colore della maglia. Il presidente in carica nel 1938, generale Giorgio Vaccaro, suscitò problemi politici per aver fatto giocare l’Italia a Marsiglia in maglia nera ma fu perdonato per aver vinto due Mondiali, nel ’34 e appunto nel ’38, in Francia. Quando i francesi aggiunsero al loro dizionario la parola Azzurri per dire Italiani. Les Azzurri, les Italiens. A ognuno il suo. A Giuseppe Pasquale “la Corea” ’66, a Franchi l’Europeo ’68, a Sordillo il Mundial ’82, a Nessuno quello del 2006. Ma il ricordo più bello, per il mondo non solo per il Bel Paese, lo ha lasciato Ottorino Barassi, il presidente che in tempo di guerra nascose agli avidi conquistatori tedeschi la Coppa Rimet, nascondendola sotto il letto in una scatola da scarpe. Quasi una scena da neorealismo rosselliniano, la sconfitta dei ladri di sogni.

Sono forse afflitto da ideali pauperistici ma questa Nazionale mi rallegra soprattutto perché allontana il Grande Spirito del Business dal calcio italiano. Sarò anche sciocco ma leggere una formazione di soli giocatori italiani eppur vincenti, eppur splendidi protagonisti di una qualificazione da ammazzasette, mi rallegra e mi fa sperare che ci si accorga, prima o poi, dell’inutilità di ingaggiare tanti stranieri. Soprattutto quando le loro nazionali li chiamano e ce li restituiscono feriti o depressi.

Trovo nella gestione azzurra (e verde) di Mancini queste tracce di utile autarchia. A partire dal giusto ridimensionamento del divismo deleterio. I ragazzi sono sempre più giovani e inventati da lui, il CT ottimo selezionatore che sul campo fa il tecnico, la miglior commistione possibile con l’uomo che fa anche il maestro. Un Ct tutto nuovo, originale: un Ct padre dei suoi ragazzi che già si chiamano Barella, Zaniolo, Kean, che si chiameranno Meret, Bastoni, Pellegrini, Tonali, Castrovilli, Orsolini, Scamacca, Pinamonti (a proposito, dissi a Conte: vai cercando gol, tieniti Pinamonti, macché). La vecchia Nazionale di Ventura era finita nel tragicomico, anche in noia, tutt’altro che gioia. Questa già mi piace. Donnarumma, Spinazzola, Acerbi, Bonucci, D’Ambrosio, Verratti, Jorginho, Barella, Insigne, Immobile, Chiesa…Sembra poesia.

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