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MA ATATURK E’ ESPORTABILE IN EGITTO?
29 Ago 2013 06:44
Si fa una gran parlare d’inconciliabilità fra la democrazia e l’Islam, di ossimori allorché si tende ad accostare le due realtà. Sta di fatto che il focus della disputa viene a porsi ancora una volta in Egitto, dove in queste ultime settimane è in atto una cruenta repressione da parte dell’esercito.
Per la sua posizione centrale e il suo sviluppo culturale, economico, demografico e tecnologico, l’Egitto rappresenta un Paese leader rispetto ad altri Paesi di lingua araba. Soprattutto oggi, dopo la caduta dell’Iraq e con la crisi siriana in corso, prescindendo dai regni desertici dell’Arabia, assopiti dal benessere petrodollaresco e troppo periferici rispetto al resto del mondo arabo.
Peraltro, come già abbiamo scritto, l’Egitto non è un Paese storicamente arabo, fin dalla sua etimologia che sembra riferirsi alla presenza dei Copti, l’attuale minoranza cristiana, erede altresì degli antichi edificatori delle piramidi. Il termine arabo Misr è invece accostabile all’ebraico Mitzrayim che è un toponimo oppure un eponimo visto che, nella Bibbia, in Genesi 10:6 si dice che i figli di Cam furono Cush, Mitsraim, Put e Canaan. Nome, quest’ultimo, anch’esso riferentesi ad una terra, non semitica, che fu poi colonizzata.
Questo per ribadire come l’Egitto non sia un Paese etnicamente omogeneo, dove, a parte una breve parentesi successiva all’espansionismo arabo conseguente alla rivelazione coranica – come già abbiamo scritto – le leadership turche: tulunide, mammelucca e ottomana furono imperanti fino all’epoca moderna. Ma altresì, per evidenziare come, per quanto possa sembrare pedante, le analisi giornalistiche prive di profondità storica siano inadeguate a comprendere il fenomeno nella sua interezza.
Pertanto l’Egitto è una nazione atipica nel panorama arabo in quanto possiede un passato plurimillenario anteriore all’avvento dell’Islam, così come un’evoluzione storica disomogenea rispetto all’arabismo. Tuttavia non è riuscito ancora a svincolarsi da questa forma di pan-nazionalismo attuandone una versione incompiuta.
Ma cos’è in ultima analisi l’arabismo? Il termine ha varie accezioni, tuttavia si potrebbe dire che è una sorta di fraintendimento conducente all’omologazione del nazionalismo pan-arabo con l’Islam, contenendo quest’ultimo nelle maglie di ferro di una realtà omogenea e totalizzante.
L’espansionismo arabo al tempo del profeta Maometto fu certamente un fenomeno fulmineo e sconvolgente per i tempi. In un attimo spazzò via una dinastia dalle origini millenarie come quella Sassanide scalfendo quella Bizantina ed altre realtà statuali del mondo antico. Una specie di Impero mongolo ante litteram.
Da qui, prescindendo dall’aspetto religioso, la considerazione nei confronti di Maometto come un eroe arabo che, con la sua vita e le sue conquiste, diede agli arabi il loro giusto posto nella storia universale.
Qualche studioso per contestualizzare la portata di tale fenomeno l’ha paragonato all’Albania dei tempi della guerra fredda, qualora fosse riuscita a mettere sincronicamente in ginocchio le potenze di allora: l’URSS e gli USA.
Quindi, un tributo di certo ma altresì un limite, nel senso che, rispetto ai persiani, ai turchi o, perché no, anche agli italiani, i quali, oltre all’Islam e rispettivamente al cristianesimo vantano un passato diverso ma altrettanto glorioso, popoli come gli arabi, ma tanto per fare un esempio estemporaneo anche gli armeni, oltre a questa civiltà non ne hanno altre da sfoggiare se non la cosiddetta jahilyya o ignoranza.
Tuttavia storicamente l’arabismo inteso, come vorrebbero i salafiti e i wahhabiti, alla stregua di supremazia degli arabi sugli altri popoli musulmani collassa già con Abu Muslim, generale iranico, artefice della rivoluzione abbaside, il quale portò, nel 750, al crollo della dinastia omayyade, a meno di cent’anni dalla morte del profeta, per lasciare il posto prima all’iranismo e quindi alla turcità. A partire da questo momento l’Islam si evolse in altre forme.
Ora, in epoca moderna l’arabismo ritorna in contrapposizione all’Impero ottomano e apostaticamente al califfato. La prima esplicita enunciazione dell’idea che il califfato sarebbe dovuto passare dai turchi nelle mani degli arabi, ideologia che oggi, con un neologismo sulla falsariga di neo-ottomanesimo, potremmo definire neo-omayyade, la ritroviamo nel XIX secolo con gli intellettuali wahhabiti, salafiti e pan-arabisti in generale, quindi qaidisti che, al giorno d’oggi, ne sono gli epigoni estremisti e deviati. Una realtà, peraltro, voluta e appoggiata dall’occidente di allora.
Curioso che, fra i fondatori, a prescindere se religiosi o laici, diversi furono i cristiani di lingua araba. Infatti, il secondo precursore del panarabismo fu un siriano cristiano, Najib Azoury (?-1916). Azoury era un maronita che aveva studiato a Istanbul e a Parigi, ed era poi diventato funzionario a Gerusalemme. Altro ideologo radicale cristiano fu Michel ‛Aflaq, nato a Damasco nel 1912, fondatore del partito Ba’ath (Rinascita) di cui Assad è l’ultimo esponente.
Venendo all’attualità, Giulio Meotti, sul Foglio di venerdì 23 agosto, riferendosi a Mustafa Kemal Atatürk, l’artefice della Turchia moderna, quale possibile modello ispiratore per la democrazia in Egitto, scrive: “La Turchia, seppur sotto reislamizzazione, resta una speciale eccezione perché un generale (Atatürk) nel Novecento ha abolito il califfato”. Prescindendo dal fatto che, alla luce di quanto esposto, bisognerebbe definire cosa significhi il termine reislamizzazione, contestualizzato in Turchia rispetto allo stesso Cairo piuttosto che a Riyad, Casablanca o addirittura Kandahar. È come dire cosa sia il cristianesimo in Italia piuttosto che in America, in Russia o per i Testimoni di Geova.
In ogni caso Atatürk riuscì nel suo intento, non in quanto generale e basta – anche al-Sisi è attualmente generale in Egitto – ma piuttosto in quanto eroe, condottiero e trionfatore in molteplici battaglie patriottiche, da Çanakkale a Sakarya ed altre, tutte ricordate nel suo Mausoleo ad Ankara, l’Anıtkebir, e che portarono la Turchia dalla soglia del baratro dovuto al collasso dell’Impero ottomano verso una gloriosa indipendenza. È sul campo che Atatürk convinse i turchi attraverso la propria personalità d’eccezione, il proprio carisma e la propria leadership. Quindi, poté far leva su un’eredità culturale preislamica ma anche imperiale, entrambe multiconfessionali, non assopita grazie all’influenza di un sufismo di matrice centrasiatica che, come poi avvenne in parte dell’Asia centrale, permise l’evoluzione verso il laicismo.
In sostanza alla domanda se Atatürk sia esportabile in Egitto la risposta è che, anacronismi a parte, nel senso che le modalità non potranno essere le medesime, le premesse potrebbero esserci nella misura in cui l’intellighenzia egiziana riesca ad elaborare delle riflessioni sulla propria storia e cultura. A capire in quali segmenti di essa intenda riconoscersi. Altro problema è la carenza di veri leader al giorno d’oggi.
Islam e democrazia possono essere conciliabili ma prima bisogna vedere di quale Islam si sta parlando perché salafismo e wahhabismo non ne sono rappresentativi bensì delle ideologie religioso-nazionalistiche che rinnegano l’evoluzione storica dell’Islam a partire dallo sciismo. Un altro punto è che non si può uniformare il concetto di democrazia ad un unico format standardizzato. In natura non esistono due cose perfettamente identiche. L’uguaglianza è una chimera, un’astrazione mentale, un prodotto dell’industrializzazione.
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