L’ORVIETO: UN VINO QUASI SCOMPARSO

Può uno dei vini bianchi più conosciuti d’Italia, tra i più apprezzati in passato, rischiare la scomparsa, almeno per quanto riguarda la sua veste tradizionale? Se parliamo dei vini d’Orvieto, la risposta è purtroppo affermativa.

Nel secondo dopoguerra il gusto del consumatore medio è andato privilegiando vini bianchi secchi, poco o mediamente strutturati, ma soprattutto freschi, quindi con una buona dose di acidità fissa. In sostanza vini particolarmente indicati per il periodo estivo; caratteristiche, queste, che distano non poco da quello che è l’Orvieto tradizionale.

Ma cosa erano i vini di Orvieto allora e cosa sono oggigiorno? La tradizione vitivinicola della zona orvietana è antichissima e a testimonianza di ciò vi sono numerose cantine, scavate nel tufo, risalenti al dominio etrusco, dimostrando così che questa era una zona di produzione vitivinicola già in epoca etrusca. Nel medioevo, grazie alla vicinanza di Roma e all’importanza che rivestiva il papato, ma soprattutto grazie a Paolo III Farnese, che dimostrava di apprezzare particolarmente questi vini, la zona acquisì notevole importanza ben oltre i propri confini territoriali. Durante la permanenza del Pinturicchio a Orvieto, è noto che egli facesse largo consumo del vino locale. Il caso più eclatante fu il contratto di lavoro di Luca Signorelli nel 1500, per realizzare degli affreschi, dove veniva esplicitato che una parte del compenso per il suo lavoro era da destinarsi in vino orvietano, precisamente una quantità di circa mille litri l’anno. Così, come tutti i contratti stipulati per la costruzione del bellissimo duomo di Orvieto, anche questo contratto vide inclusa una parte del pagamento con del vino locale.

Il vino qui prodotto possedeva un carattere morbido e abboccato, dettato dalle particolari condizioni climatiche: le grandi nebbie che si accumulano durante l’autunno favoriscono la formazione della Botrytis cinerea, muffa che, attaccando l’acino, concentra gli zuccheri presenti tramite un processo naturale di disidratazione. A favorire questo carattere di vino abboccato ci pensava infine la fermentazione spontanea, che avveniva nelle cantine scavate nel tufo, quindi in presenza di temperature basse, ma soprattutto costanti, e popolate da una fitta varietà di lieviti naturali che, impossibilitate dalle basse temperature, non portavano mai a una totale fermentazione degli zuccheri. Era inevitabile che un vino dell’orvietano avesse un gusto abboccato,  una caratteristica, che contribuì non poco alla gradevolezza e al successo commerciale di questo vino.

Questo carattere, il vino d’Orvieto se l’è portato invariato fino al secondo dopoguerra. Con l’ottenimento della DOC nel 1971 molte cose sono cambiate. Da una parte affiorarono nuove cantine, dall’altra si impose un nuovo stile produttivo, che tutt’oggi sussiste: non più vini abboccati, ma bensì secchi, inseguendo quella che era la richiesta del mercato.

La conseguenza più grave di questa rincorsa al gusto dei consumatori è stato l’appiattimento e la banalizzazione del prodotto, che lo ha reso uno dei tanti vini bianchi italiani poco impegnativi da consumare giovani. Se aggiungiamo a questo, il carattere relativamente anonimo che possono acquisire la due uve simbolo della zona, il Grechetto, ma soprattutto il Procanico, nome locale del trebbiano toscano con questo tipo di lavorazione, si spiega come mai in alcune tra le migliori versioni, non espressioni, di Orvieto DOC sia intervenuta la consuetudine di usare largamente vitigni internazionali, a suo tempo non autorizzati, a scopo migliorativo.

La DOC, però, dà ampio spazio di interpretazioni e non esclude assolutamente lo stile tradizionale. L’Orvieto, infatti, può essere prodotto nelle versioni secco, amabile, abboccato e dolce. È stato, quindi, il mercato a spingere verso una produzione quasi esclusivamente mirata a un prodotto secco e semmai in alternativa, ove possibile grazie all’attacco delle muffa nobile, a un prodotto dolce, abbandonando, in parte, la versione abboccata.

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