L’ITALIA, GIARDINO DEI SALAFITI

Molti anni fa, più precisamente negli anni ’90, trovandomi ad Istanbul, mentre guardavo un notiziario in televisione, vidi una scena che rimase impressa nella mia memoria. Un gruppo di esuli ceceni che, in qualche città della Turchia, protestava contro Mosca esibendo degli striscioni sui quali c’era scritto: Çeçenistan Rusya’nın bahçesi olmayacak, cioè la Cecenia non diverrà il giardino della Russia. Uno slogan forte e deciso, di cui posso immaginare l’impatto nonché la simpatia esercitati sull’opinione pubblica di quel Paese allorché pronunciato in quel contesto. Peccato che, a posteriori, la Cecenia, così come altre regioni dell’area caucasica, si siano trasformate, a loro volta, in “giardini” delle petrolmonarchie salafite e wahhabite del golfo. 

Per chi non lo ricordasse, salafismo è un termine che si riferisce alla voce araba salaf, “antenato”, e si potrebbe tradurre come “tradizionalismo arabo-islamico”. Un movimento riformista sorto in Egitto verso la metà del XIX secolo che postulava la rivivificazione della religione islamica attraverso il ritorno alle sue fonti. Non scevro di collegamenti con il wahhabismo, altra corrente religiosa anteriore ad esso di circa un secolo e nata come reazione all’autorità costituita dall’Impero Ottomano nei confronti del mondo arabo. Entrambi caratterizzati per le loro vedute – che oggi in occidente definiremmo fondamentaliste – radicalmente iconoclaste, anti-sufi e anti-sciite.

I salafiti in Caucaso, a partire dagli anni ’90, stanno conducendo una lotta armata contro gli infedeli ma altresì contro quelli che essi considerano musulmani apostati o “murtadd”, santi, sufi e sciiti. Del resto negli ultimi anni gli investimenti dei Paesi arabi con conseguente wahhabizzazione delle nuove generazioni stanno monopolizzando gli scenari regionali.

Ci si potrebbe chiedere che cosa c’azzecchi tutto questo con l’Italia. In realtà c’azzecca, eccome. Il Governo italiano sta flirtando con le petrolmonarchie del Golfo. A partire da alcune iniziative di soft power come la mostra: “Alla scoperta dell’Arabia Saudita. La terra del dialogo e della cultura”, tenutasi a Roma, dal 9 ottobre fino al 30 novembre presso il Complesso Monumentale del Vittoriano. Realizzata in occasione delle celebrazioni per gli 80 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Arabia Saudita.

Quindi i molteplici viaggi di Enrico Letta negli Emirati Arabi Uniti, nel Qatar e nel Kuwait. In ottobre, allorché Letta arrivò ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, intervenendo al Forum economico Italia-Eau. E di recente, questo mese dal Qatar, da dove il primo Ministro ha dichiarato che: «Italia e Qatar stanno considerando una possibile ulteriore presenza del capitale qatarino nel settore dell’energia, dall’Enel al rafforzamento del terminal di gas metano di Rovigo», aggiungendo: «C’è interesse per le opportunità d’investimento e per il piano delle privatizzazioni. Ho trovato anche a Doha un’accoglienza molto forte, uno sprone ad andare avanti. Abbiamo discusso di possibili investimenti nel campo energetico, ulteriormente nel capitale di Eni e nel gasdotto di Rovigo, ma ci sono anche possibilità per le imprese italiane a Doha. Credo ci siano molte possibilità, in particolare per il mondo legato a Finmeccanica, gli elicotteri di Agusta e i radar di Selex, che sono il Made in Italy di maggiore tecnologia».

Insomma, qualcosa di più che un’occasionale e fugace amicizia.

Il Governo italiano sembra, in realtà, voler modificare l’asse, il fulcro geoeconomico del Paese. E questo di riflesso alla tempesta mediatica scatenatasi l’estate scorsa sul caso Ablyazov ed i conseguenti raffreddamenti delle ottime relazioni commerciali bilaterali. Quindi, alle varie campagne denigratorie nei confronti di altri Paesi dell’area.

L’Italia ammicca alle monarchie petrolifere del Golfo, dimenticando il ruolo avuto da queste nelle cosiddette “Primavere arabe” e il ruolo che, soprattutto, quest’ultima ha avuto e continua ad avere nel conflitto siriano.  

Ricordiamo l’assedio di Maaloula da parte dei “ribelli” non siriani, stranieri, pakistani, ceceni, wahhabiti del Golfo, al-qaidisti.

L’Italia sembra, pertanto, attuare una politica estera alquanto schizofrenica, oltre che poco pragmatica, predicando bene sulla stampa di “regime” che tuona contro ogni sorta di dittatura, satrapia, di fondamentalismo ed integralismo religiosi, noncurante dell’attendibilità delle proprie affermazioni. O forse, piuttosto, consapevole ma in malafede.

Rimanendo in ambito arabo, pensiamo solo alla demonizzazione di Gheddafi e alla recente guerra libica contro i nostri interessi energetici nel Paese, entrambi rei di essere stati delle scelte di un Governo piuttosto che di un altro. Fino alle demonizzazioni di Mubarak ed Assad, leader laici a capo di paesi multietnici e multireligiosi, tanto per fare alcuni esempi. E, non scordando il “golpe” di Napolitano, di cui si parla in questi giorni,già denunciato a suo tempo nel volume: “Il Grigiocrate” di Augusto Grandi, Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano molto prima del libro di Alan Friedman. Un abuso di potere che a prescindere da qualsiasi presupposto democratico ci ha imposto il Governo Monti, il più totalitario e liberticida che l’Italia ricordi. Un Governo che ha gettato il Paese nella prostrazione più nera e angosciosa, oltre che avere innestato una sequela ancora ininterrotta di suicidi dovuti alla crisi economica.  

Quindi, tornando all’attuale politica estera, essa sembra razzolare male, se questi interlocutori o possibili partner commerciali, costituiscono veramente quel modello di democrazia, trasparenza e libertà religiosa e diritti civili, proclamati dalla stampa nazionale quale conditio sine qua non per intraprendere relazioni bilaterali.  

Enrico Letta da Doha, in occasione dei Giochi di Sochi, ha pronunciato le seguenti parole:«A Sochi ribadirò la contrarietà dell’Italia a qualunque norma o iniziativa discriminatoria nei confronti dei gay, nello sport così come fuori dallo sport». Chissà cosa ne pensano da quelle parti.

Quando saremo energeticamente dipendenti da questi Paesi, vedremo se si potranno ancora esprimere tali slogan, che stanno così a cuore alla nostra sinistra. 

    

 

 

 

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