LA TRAGEDIA DI MARCINELLE

 

Affonda le radici nella storia la narrazione di  Fabrizio Saccomanno.

 Marcinelle, 8 agosto 1956: un’esplosione,  le voci corrono, si sono salvati, no, qualcuno è ancora  sotto. Le donne non piangono, il cuore si fa di pietra, sono abituate al dolore, alla possibilità della morte, ma la miniera no, sepolti vivi sottoterra non è pensabile, non è umano. Si vestono, qualcuna mette lo scialle, così si fa al sud quando ci si prepara al lutto.

Nell’esplosione morirono 262 uomini. 136 erano italiani. Tanti meridionali.

Saccomanno racconta  in dialetto salentino  questa grande tragedia della miseria del dopoguerra,: lo strappo dalla propria terra anche se arida e avara, la speranza di un avvenire migliore per i figli, la partenza, il lungo interminabile viaggio, i treni  che dopo la frontiera venivano sigillati perché non si potesse tornare indietro, pena il carcere e il ritiro del passaporto. Erano stati ben precisi gli accordi economici tra gli stati, manodopera come merce di scambio per il carbone.

Saccomanno ripercorre la loro storia, raccoglie testimonianze  e ne fa una narrazione che diventa arte. Sceglie il dialetto, perché la lingua dell’anima, quella che meglio sa scavare la parola e riesce a portare fuori le emozioni, quelle più intimi e più forti . Una  narrazione che racconta un passato che è rimasto sempre un presente, perché l’emigrazione rimane una realtà, una realtà  che oggi  percorre le strade del deserto e del mare e, ancora una volta, si fa tragedia.

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