La prima volta su Facebook non si scorda mai

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Festeggio insieme a voi il mio compleanno. Sono ben dieci anni indimenticabili che sono atterrato su Facebook. Ricordo come fosse ieri la circostanza in cui un amico tecnosperto, davanti a una pizza e ad altri ameni e ignari ospiti, mi creò l’account registrandomi. 

Avevo il mio account. Mi sentivo già più figo. Senza un perché. La prima cosa che mi allucinò non poco fu questa: lo schermo si illuminò di una serie infinita di foto e facce definite dal social come “persone che potresti conoscere”. Non avevo la più pallida idea di chi fossero. Ce ne fosse stata una che mi ricordasse qualcosa, anche per sbaglio! Che ne so? La merendina all’asilo. Lo sciopero al liceo. L’eredità del cugino Franck Ammendola in Louisiana? Non dico il mio compagno di banco! Ma almeno un condomino, che ne so! Nulla. Solo alieni. Una sfilata interminabile di alieni. Non di rado travestiti da gattini, piante e simboli imperscrutabili.  

In seguito mi spiegarono che il potente e sofisticato algoritmo di Fb ragiona tecnicamente un po’ ad linkiam, fatto che ho potuto verificare sino ad oggi almeno un centinaio di volte. 

Il secondo passaggio emozionante riguardò la prima notifica che comparve in alto, in un pallino blu tranciato da un numerino rosso, che avrei imparato presto a conoscere quale spia di indimenticabili trepidazioni e battiti del cuore: la prima richiesta di amicizia. Capite? La mia prima richiesta di amicizia! Non mi sono neppure registrato e già qualcuno si è accorto di me e mi vuole! … Era mia madre. … Non la presi così male. Il meglio era in agguato: dopo un mese arrivò la richiesta irrifiutabile di mia suocera. Irrifiutabile. 

La sera in cui, circondato da amici e commensali, mi ritrovai catapulregistrato, seguirono a frotte altre richieste di amicizia. Inquietanti. Mi colpì la sfilza di allegre signore in costume dai nomi esotici (e francamente non credibili nella Sicilia del profondissimo sud). Ricordo che colpì intensamente l’immaginario degli astanti la richiesta di una certa Belen Rodrigues con la s, una pantera in bikini che asseriva di conoscermi e di voler intensamente diventare mia amica. Sprofondai intensamente sulla sedia, spergiurando che la mia compagna di banco del liceo avesse l’acne giovanile e l’apparecchio ai denti. E che si chiamasse Giovanna Assunta Firrincieli. Senza s. Rigorosamente. Intensamente non fui creduto dagli adorabili compagni di mojito, che intensamente inviai affanfacebook. 

L’esordio fu dunque non meno che scoppiettante. Un florilegio di peripezie e disavventure non meno che pimpanti. Da lì in poi fui risucchiato 

La vita sarebbe un errore senza caffè. Se, appena alzato, non prendo il primo caffè, riesco a guardare la televisione per una buona mezz’ora. Il che ci potrebbe anche stare, se prima l’avessi accesa.

Credo che questo bisogno abbia a che vedere col neurone. Con cosa fa rima neurone? La nuova liturgia dell’exit dal coma prevede ora un passo immediatamente successivo: la visitina a Facebook. E così mi ritrovai di buon mattino a polemizzare acidamente con decine di amici di amici sui più svariati argomenti. Seduto rigorosamente sulla tazza del water. Nel più antico dei riti umani. Che una volta poteva dirsi sereno e tonificante. Da Fb in poi dicasi elettrovoltaico e stressificante. 

Guerre furibonde a colpi di faccine e topoloni animati (emoticon li chiamano) al limite del codice penale contro perfetti sconosciuti, non di rado professionisti attempati anche loro. Appena svegliato. Ma chi doveva dirmelo che alla mia veneranda mi sarei ridotto a questo? E che ci avrei persino provato gusto? Meglio una partitina a padel appena alzati. Almeno elimini tossine. E ti agiti meno.

Anche controllare i “Mi piace”, che riuscivo a racimolare nel cuore della notte dal club dei sonnambuli e dei vampiri, non fu un’idea propriamente balsamica. Lo so, non si giudica il valore di una persona dai like che prende su Facebook. Il valore no. Ma l’umore a volte un po’ sì. Non facciamo gli ipocriti, please! A volte. Dopo un’oretta, una volta resomi appena più presentabile, mi sparavo il primo selfie della giornata. Sì. Mi selfavo. Ogni tanto. Ma non ero selfolabile. Ma una certa nevrosina la si vedeva. 

Ora sono guarito un minimo. Topoloni. Sì. Vecchiaia e social costituiscono un mix letale: ci rende topoloni come degli emoticon appesi all’ultimo orizzonte di questo Terzo Millennio.

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