LA MEMORIA E LE COSE

Chiunque posi per una foto, sperimenta la paradossale situazione di vedere se stesso in senso storico: trasformato da soggetto a oggetto, corpo imbalsamato, passaggio di un momento che è stato e che non è più. Tutto questo si potrebbe definire una micro-esperienza della morte. Trasformato in Tutto-Immagine, il fotografato diventa quello che gli altri decidono per lui. Diventa corpo inerte.

Roland Barthes, La camera chiara

 

La memoria. La memoria è ciò che ci rende possibile mantenere un legame con chi amiamo e non c’è più. Attraverso la fotografia, chi c’era – in quel momento esatto in cui qualcuno ha scattato la sua foto – adesso può non esserci più, può non vivere più. La memoria della sua esistenza si concretizza in una immagine che, al momento della sua produzione, aveva fatto della persona reale, vivente, un corpo inerte, come dice Barthes, un corpo “morto”. Meraviglioso paradosso della fotografia, che forse riassume il paradosso della memoria: per poter rivivere nei ricordi di chi lo ama, il soggetto/oggetto ritratto deve prima morire, almeno un po’!

Ma c’è la memoria di chi ha creato la foto. La memoria che si documenta attraverso la sua foto, la foto che egli ha fatto, mettendoci dentro (e intorno) la sua visione delle cose e del soggetto/oggetto ritratto. Un linguaggio secondo che ce lo fa riconoscere, di cui percepiamo gli scarti, i vezzi, i meravigliosi limiti di cui ognuno di noi va fiero nel mondo (e che poi sono ciò di cui facciamo innamorare gli altri!).

Che la fotografia sia in certo modo un esercizio di potere, dell’operator sullo spectrum (per dirla con Barthes), lo dimostra il fatto che in certe culture e in alcuni remoti angoli della nostra  individui non tollerino di essere ritratti. Cioè di essere trasformati in oggetto. Quasi come se chi ritrae avesse un potere di ritirare la vita. Di prosciugarla dal corpo immoto di colui che si presta a tale sacrificio.

Ma l’angoscia di essere “uccisi” simbolicamente si vince solo a una condizione: che ci si abbandoni al rapimento fotografico per un puro e semplice atto d’amore.

La memoria e l’amore sono le correnti che volteggiano dentro le stanze in cui è ospitata la mostra Di gente e di città, che Manuela Distefano ha dedicato al padre Nino, scomparso da tempo ma che vive dentro di lei, nella comune passione per la fotografia, nella scelta di farlo tornare a parlare,  attraverso le sue commoventi, appassionate immagini.

E così, se si va con l’animo giusto, si può fare esperienza della memoria almeno su tre diversi livelli:

–         la memoria di ciò che è fotografato, gente e città di un’epoca vicina e lontana, gli anni ’70, in cui vecchio e nuovo si incrociavano senza riconoscersi.

–         La memoria dell’Autore, che rivive attraverso i suoi scatti e che si fa vita, nel momento in cui quegli scatti incontrano lo sguardo di chi osserva.

–         La memoria, questa si assolutamente appassionatamente irrimediabilmente viva, di Manuela, che ha scelto di condividere una parte dei suoi ricordi regalando a chi guarda un pizzico del segreto del fare foto e che diremo ancora con il grande Barthes:

 

 

Al di là della prodezza, della tecnica, della trovata, del tempismo, al di là di tutte le sfide del probabile e del possibile,  il fotografo agisce su ciò che fotografa,

 su quel particolare momento in cui il qualunque cosa diventa il massimo valore.

La sua veggenza non consiste tanto nel vedere ma nell’essere presente.

Nel momento e nel luogo giusto. La sua arte sta nell’ATTIMO. 

Non si tratta di semplice testimonianza

 ma di una magica capacità di cogliere il momento giusto (kairos) e di fissarlo per l’eternità.

 

 

 

Di gente e di città, mostra fotografica, fino al 22 dicembre presso Palazzo Garofalo, Ragusa

 

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