La Grazia ed il Peccato

Il nostro pane quotidiano, le stigmate di ogni uomo da quando nasce sino alla fine Pietro Citati in un bell’articolo su “Repubblica” di Sabato 10 luglio 2010 (p. 1 e 33) dal titolo significativo ma problematico “La Grazia della Fede e il senso del peccato” sottolinea come «il senso acuto del peccato contribuisce alla ricchezza e alla complessità del Cristianesimo: una complessità che, per esempio l’Islam, che ignora in gran parte il peccato di Adamo, non possiede». La differenza cristiana sarebbe quindi non l’ottimismo ingenuo e gaudente ma il tormento e la lotta con le maceranti conversioni e l’estasi “cristica” come conquista dentro l’esperienza del peccato di una santità personale mediante l’abbandono alla Grazia della Misericordia di un Dio Provvidente. Ciò di solito è avvenuto sia in spiriti obbedienti normali che ribelli ed eccezionali (Paolo, Agostino, Pascal, Tommaso d’Aquino, Papa Giovanni XXIII, Edith Stein, Maria Goretti, Massimiliano Kolbe e Dietrich Bonhoeffer…).

Sia la Grazia della Fede in Gesù il Cristo, che è un dono e una benedizione del Cielo, come il senso acuto del peccato, che viene dal flirtare quotidiano con le tentazioni e le deviazioni, accompagnano e lacerano la vita di tutti, sono le stigmate di ogni uomo da quando nasce sino alla fine, come  poli dialettici di un cammino interiore della coscienza, “credente” e laica. Essi rappresentano l’uomo diviso e bifronte, i due volti della condizione umana tesa sia al piacere immediato e fuggevole che alla ricerca della salvezza mediante i sacramenti della riconciliazione e della beata speranza che nasce dalla Fede. La secolarizzazione nella sua dimensione attuale, orizzontalista e nichilista, non ha prodotto tanto l’ateismo filosofico quanto un neo-paganesimo di ritorno, cioè la nostalgia delle religioni antiche, della  loro genealogia,lo spirito nietzschiano del superuomo tipico della morale pre-cristiana. L’odierno pluralismo religioso “secolarizzato” non pone nel timore di Dio l’inizio della sapienza che accompagna verso il disvelamento della Rivelazione e la ricerca della Fede che ritiene possibile anche se eccezionale e privato l’incontro, il dialogo e la comunione d’Amore con un Dio Persona che trasforma un peccatore in un santo nella libertà della conversione. Il Cristianesimo, infatti, nel Cristo Medico delle anime e nella sua “medicina della misericordia” la via normale e quotidiana per superare ciò che era stato ed è impossibile all’uomo salvarsi  con la sola ragione mentre è possibile attraverso la fede che porta a chiederne il dono e la grazia con tutta l’anima,la mente e il cuore. Pietro Citati si sofferma in realtà apparentemente su altro sull’analisi particolare, quella della esperienza del male e del peccato nella Chiesa dove la fedeltà e il tradimento convivono con l’amarezza e il dolore di Papa Benedetto XVI che la vorrebbe “sine macula”. La profonda e coraggiosa analisi storica e di teologia spirituale denota la determinazione ed il coraggio morale di un grande Papa Spirituale che si è nutrito dell’ “ottimismo tragico” di una Ragione hegeliana e di una vocazione ontologica e lirica al dialogo e alla ricerca della verità totale come coessenziale alla “differenza cristiana” della Fede nell’Amore più grande. Anche il Santo Padre vuole parlare al cuore della Chiesa Universale e al bisogno di verità e di morale oggettiva del Mondo Globalizzato.

Come non ricordare la risposta di Pietro a Gesù che chiedeva agli apostoli: «Volete andarvene anche voi?» e Pietro rispose: «Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!”.
L’uomo di oggi, triste e smarrito, vive i suoi tre quarti di nobiltà più nell’ombra del peccato di costume ed un quarto nella luce della Grazia. Immerso nel labirinto dei problemi contemporanei e nel groviglio delle cieche prospettive di senso, non sa capacitarsi senza una bussola e si smarrisce  nella giungla dell’ermeneutica perdendo il sentiero della ricerca razionale e di fede credente  sia nel Cristianesimo che nelle altre religioni dove è possibile trovare il Sommo Bene nel quale consiste la felicità. La ricerca della felicità riguarda sempre tutti ma la felicità del futuro non potrà fare a meno della via della Misericordia e del perdono,della Grazia e della riconciliazione. Non sette volte ma settanta volte sette, come si dice nel Vangelo. Non siamo quindi chiamati ad una esoterica introspezione macerante ma ad una gioiosa relazione di amore con Dio, con il prossimo, con i bisognosi e anche con i fanciulli oggetto dello scandalo dei pedofili. Il cristiano non cerca infatti prima il piacere sadico e poi il perdono, né l’approvazione del mondo e poi la falsa coscienza ma la Grazia di Dio attraverso i sacramenti e il bene della Chiesa nella purezza originaria del Fondatore e Redentore e aspetta tutto il resto  in sovrappiù testimoniandolo nella società familiare e sociale,religiosa e politica. La vecchia metafisica difendeva la relazione originaria e feconda tra Fede e Ragione.

Secondo Gianni Vattimo «un ritorno a Dio, come fondamento metafisico significa, in termini nietzschiani, rifiutare la sfida dell’oltre-umanità e anche condannarsi a quella condizione di schiavitù» (pp. 78-79). L’esperienza religiosa della finitezza è segnata «più che dal senso della colpa e del peccato, dal bisogno del “Perdono”» (p. 83). Vattimo riprende a riguardo le analisi di Paul Ricoeur e di Emmanuel Lévinas delle domande che ci provengono dagli altri e dall’Altro e che si collocano nell’orizzonte supremo della radicalità dell’esistenza quando ci si confronta con l’enigma della morte (propria e altrui !), con quello del dolore e della preghiera. (cfr. in La Religionea cura di Jacques Derrida e Gianni Vattimo. “La traccia della traccia” Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 75-89). In questo senso la Chiesa Cattolica con la “Fides et Ratio” di Papa Woytjla si è specificata non come un’agenzia religiosa come le altre ma con una sua vocazione  specifica alla diffusione della salvezza che viene da Gesù Cristo”Via,verità e vita” ai poveri sino agli estremi confini della Terra.

La sua ricorrente tentazione è ancora quella di essere o restare, laddove è possibile maggioritaria, secondo il mito della “ nuova cristianità “ come ci ha lucidamente insegnato la vicenda del Grande Inquisitore di F. Dostojeski.In verità i cattolici sono cristiani di minoranza un po’ ovunque  e  la realtà di una minoranza cresce nella libertà e nella carità della testimonianza per diffondere la salvezza di Cristo. Così il sacerdote – sottolinea Pietro Citati – non è “un uomo come gli altri” assimilabile ed omologabile ma – a suo dire – “è un erede degli antichi eremiti…”. La positività di oggi, non riscontrabile nella storia passata del Cristianesimo e nei secoli bui della vita della Chiesa, induce a sperare e a desiderare un nuovo cammino di misericordia e di santità feriale secondo la sempre attuale lezione del Vaticano II ben espressa nello stesso articolo dallo stesso Pietro Citati: «La luce della grazia scende dal Cielo e avvolge a poco a poco tutta la Terra: rischiara i pensieri e i sentimenti ed ogni angolo abitato o deserto. Sotto forma di fede questa grazia ritorna nel Cielo da dove è discesa: perché la fede non è altro che grazia umanizzata». Il figlio di Dio e Redentore dell’Uomo non nascondeva di essere nello stesso tempo uomo e si chiamava Figlio dell’Uomo  per affermare che la Redenzione dell’Uomo veniva però da un Dio incarnato e immigrato a Betlemme di Giudea.

Tempi difficili stiamo vivendo! I legami sociali interiori sono in crisi. La socializzazione intergenerazionale è labile, debole e cieca. La disoccupazione è alta e crescente. Il Potere con il suo volto leviatanico rozzo, arrogante e strisciante, inquina il sentimento nazionale e l’idea stessa di bene comune generale come direttiva fondamentale e centrale dell’agire politico nelle istituzioni nazionali e locali. La democrazia repubblicana, avvolta dalla foschia sorda e grigia, che regna nei partiti, sempre malati di leaderismo, più o meno artificiale, vivono di cooptazione e di riproduzione della nomenklatura e non riescono a guadagnare credibilità fattuale nel merito perché non riescono ad essere più democratici e trasparenti per costruire la democrazia governante del bene comune e della inclusione sociale. La stessa vicenda di Pomigliano è drammaticamente presente più con i problemi irrisolti e per il colpo di mano nel cuore della  libertà della Nazione.

Abbiamo perso il senno. Stiamo mutando le relazioni industriali a colpi di maggioranza e con il ricatto della chiusura e della delocalizzazione della produzione non a bocce ferme ma in corso d’opera nel mezzo di una Crisi azzerando la cultura primaria, valoriale e solidale, del lavoro e dell’imprenditorialità sana e riformatrice con la violenta e repentina immissione di una strategia autoritaria di svolta di convenienza mediante la fine della concertazione dialogica e alta. Il profitto è ridiventato l’anima di ogni scelta manageriale. La filosofia di Marchionne,fatta propria dalla Marcegaglia, è tutta “tardo e “turbo-capitalistica”. Il Ministero del lavoro non è più il garante del sistema formale delle  relazioni industriali sane e fisiologiche tra le Organizzazioni Sindacali, datoriali e dei lavoratori, ma la voce bilaterale del Padrone più forte e più organico al Potere di turno.

Non è solo il radicalismo nelle relazioni industriali o la insicurezza nelle relazioni sociali il binario morto del Paese ma la cultura interiorizzata di valori e dei fini particolaristici che ispirano la nuova annunciata prassi sistemica. Anche il discorso politico che parla di una misura alta e tocca i valori,balbetta solo di spiccioli e perde per strada sia il lavoro che l’economia della ripresa, il salario “familiare” e la questione giovanile e non pratica più nemmeno per tattica l’annuncio dei bonus preelettorali ma la quadra dei conti di bilancio dimenticando la dignità del lavoratore e dell’onesto imprenditore, la prospettiva comune di fuoruscire insieme dalla Crisi su linee di sviluppo condivise, come da tempo predica il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Non si può continuare a governare con l’eclissi della cultura e dei valori un Paese in crisi di coesione sociale e democratica con la spada della minaccia e a colpi di fiducia “immorale” nel Parlamento. Non sono i “lodi” o il legittimo impedimento il vero rimedio ma il rispetto dei diritti costituzionali e l’etica della misura e della corresponsabilità democratica.

Si è disquisito sul partito dell’odio e su quello dell’Amore con il fluire successivo di autentiche bordate. Alla fine come nel” gioco dell’oca” tutto è ritornato,come prima, al centro, al conflitto di interessi che suona la campana a morto della democrazia parlamentare e antifascista.

Sventola la bandiera “verde” del cinismo che ha la faccia tosta della caparbietà autocratica e pretende di voler riformare con il voto di scambio la stessa Costituzione repubblicana.

Questa cultura va contestata attivamente e non subita. È una quotidiana dissenteria mediatica quella che come un fall-out sta inquinando l’opinione pubblica e la stessa gerarchia e circolarità dialettica dei valori. Ci vuole ben altra dialettica democratica e ben altra contesa di amore per salvare l’Italia dalla fossa del declino. Come scriveva Don Primo Mazzolari: «Chi si appella e fa leva sull’amore [che è] il fulcro della nostra libertà, non porta via nulla all’uomo, non impone gravami all’uomo» (cfr. Il compagno Cristo, EDB, Bologna 2003, p. 88). Oggi, però tutto il peso della Crisi è sulle tasche dei più poveri, del popolo e delle classi medie, dei giovani soprattutto e in questa situazione non si può né gioire né cantare, ma solo lottare. In tempi di cinismo la coscienza non ama né spera perché è sonnolenta o alienata. D’altronde il cinismo ama se stesso e si serve del consenso anche del voto di scambio per imporre le sue vie e le sue priorità. Se pratica il compromesso è solo perché avverte una qualche debolezza interna o una minaccia di tradimento nello schieramento governativo nazionale o locale. In generale il compromesso al ribasso non solo è una tentazione ricorrente ma una pericolosa inversione tatticistica rispetto alla Politica con la P maiuscola. Come notava Piero Balestro, filosofo, teologo e psicoterapeuta, ormai è tempo di “Parlare l’amore” (S. Paolo ediz.) e non di parlare “di amore”, di vivere la maturità dell’Amore, cioè la gratuità e l’oblatività di un servizio. Cristo è venuto per darci con il suo estremo sacrificio una vita più piena e abbondante, quella dell’Amore più grande, di un Dio fatto uomo, crocifisso e risorto per ridare a tutti “il paradiso perduto” e la speranza suprema di un’eternità felice e ricca con Lui, figlio prediletto del Padre nella Terra divenuta Cielo e non l’Inferno dei Dannati.

La politica, se cristianamente ispirata e laicamente motivata, è sempre pegno di una futura gloria spirituale e non solo temporale. Il servizio “laicale” degli uomini politici cristiani in questo caso è “segno” di un amore grande,“degno” del sacrificio di Gesù, e si presenta come voce autorevole e disinteressata di una liberazione concreta e crescente dai mali che non può finire perché ha come scopo l’esercizio del diritto universale alla felicità.

Gesù Cristo non è solo un uomo giusto e un semplice consolatore ma un Messia completo, un Redentore e liberatore. Dalle tenebre chiama credenti e pagani in ogni attimo della difficile vita contemporanea  allo splendore della luce, della verità nella carità perché “ è Lui la Via, la Verità e la Vita”. Da questa fede nasce la missione dell’uomo, la missione del dotto e dello statista. Se l’amore è dono, è anche principio di fedeltà e quindi di lotta perché nello stesso tempo è una conquista, un servizio e una responsabilità, un prendersi cura del prossimo come se stessi per amore, cioè un impegno politico “serio”. La Politica, anche nel peccato sociale, cerca l’amore, ma inutilmente e invano perché essa muore senza le sue due dimensioni strutturali:orizzontale e verticale, laiche e religiose.

Essa non deve parlare d’amore ma “parlare l’amore”, come diceva l’indimenticabile Piero Balestro.

 

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