LA FAVA COTTOIA

Il Ces, il Consumer Electronic Show, chiuso venerdì 13 gennaio a Las Vegas, è la più grande fiera mondiale dell’elettronica: televisori, pc, smartphone, tablet… Tutto quello che ha un chip nel cuore, è qui. Una definizione appena sufficiente: gli oltre 170.000 metri quadrati sono piuttosto l’espressione dell’entusiasmo che i più moderni dispositivi elettronici sono in grado di scatenare. Nessun oggetto oggi sembra attrarre più di un sottile ultrabook (la risposta del mondo Windows al MacBook Air di Apple) o di uno schermo TV dello spessore di una matita. Un’atmosfera alla quale guarda anche l’industria automobilistica, alla ricerca di qualcosa di utile a far ritrovare quella passione per le quattro ruote, dimenticata dalle nuove generazioni cresciute a Xbox e social network.

Al Ces l’ha fatto da padrona l’industria dei paesi orientali che, ormai, direttamente o indirettamente perché produce i componenti o produce per conto terzi, controlla la maggior parte della produzione di beni a tecnologia avanzata. Parliamo di quei paesi che fino a qualche anno fa erano conosciuti da noi perché produttori di ginseng o di improbabili medicamenti quali sterco di tigre o polvere di zanne di elefanti. Abbandonata la tradizione, questi paesi hanno investito tanto nell’istruzione, nella ricerca, nel sapere e, ora, sono gli unici paesi la cui economia ha un altissimo tasso di crescita, in netta controtendenza con quello dei paesi occidentali.

A proposito di controtendenza. Notizia di qualche giorno fa: “la fava cottoia deve essere preservata e diventare un presidio slow food. Il legume tipico della tavola iblea, tradizionale alimento povero ma riscoperto negli anni, sarà proposto come presidio slow food dalla Camera di Commercio grazie ad un’istruttoria che si avvarrà degli esperti di Slow food nazionale e locale”.

L’appellativo di questo legume è un termine sconosciuto ai più. In effetti è un termine colto, arcaico, come si conviene a chi coltiva la tradizione. Se si cerca in un dizionario della lingua italiana di uso scolastico non si trova. Si deve ricorrere al Dizionario Hoepli, al Dizionario Treccani in cinque volumi o al Vocabolario degli Accademici della Crusca per capire che stiamo parlando di legumi di facile cottura, quelli che in dialetto siciliano si definivano “cucivili”. Naturalmente è stata scelta la denominazione italiana per agevolarne la diffusione anche nelle regioni nordiste dell’Italia. Non sappiamo se la misura adottata servirà allo scopo perché, da quando c’è la Lega, abbiamo capito che forse i nostri concittadini nordisti hanno più soldi ma, certamente, sono più rozzi e incolti di noi.

Per ottenere il presidio si è scomodato pure un illustre accademico, il prof. Orazio Sortino della Facoltà di Agraria dell’Università di Catania che sosterrà il progetto scientificamente.

L’ottenimento del presidio oltre che proteggere la fava «cottoia», come hanno ammesso i rappresentanti di Slow Food nel corso della riunione, garantirebbe la sopravvivenza del prodotto nel tempo, ne aprirebbe le porte al mercato non solo locale, elevandone il flusso di vendita da parte del produttore.

In effetti si parla di un alimento tradizionale sano, gustoso, ricco di proteine vegetali, non immune però da fastidiosi effetti collaterali. Effetti che passavano in secondo piano quando questo era uno dei cibi fondamentali e principale fornitore di materiale proteico dell’alimentazione dei contadini; ma loro non avevano problemi di etichetta e, poi, vivevano quasi tutto il giorno all’aria aperta e in contiguità con gli animali, cosa che consentiva un facile dissolvimento o confusione degli esiti secondari.

La fava cottoia sarà presente alla prossima edizione del Salone del Gusto di Torino, vetrina internazionale dei prodotti locali d’eccellenza, dove saranno offerte anche delle degustazioni di piatti a base del prestigioso legume. Il rischio è che, dopo l’elegante manifestazione, le signore dell’alta società, certamente invitate per promuovere l’alimento, si troveranno nell’impossibilità di controllare scoppiettanti e maleodoranti esiti, maledicendo per sempre questo alimento volgare e popolare; da promozione a boomerang per l’economia dei produttori.

E qui conviene ricordare che delle fave si occupò anche il grande filosofo Pitagora (è il caso di allargare l’illustre consesso anche a qualche filosofo? Tanto paghiamo sempre noi!). È celebre l’idiosincrasia di Pitagora e della sua Scuola per le fave: Egli avversava fortemente le fave fino al punto da non volerne toccare i frutti e si ammantava della sua superstizione costringendo gli allievi a constatare la natura eretta della pianta e speculare sui suoi significati più segreti. Non solo si guardavano bene dal mangiarne, ma evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. Secondo la leggenda, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone (di Crotone), preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave.

Perché mai le fave impedivano di mantenersi puri? I pitagorici provavano nei loro confronti un vero e proprio orrore per una serie di motivi. Il primo è di carattere botanico: sola fra tutte le piante la fava ha uno stelo privo di nodi grazie al quale essa diventa un mezzo di comunicazione privilegiato tra l’Ade e il mondo degli uomini, strumento della metempsomatosi e del ciclo delle nascite. In effetti, il profumo delle fave cotte, molto simile a quello dei corpi in decomposizione, poteva aver dato adito a quella credenza. Ma anche perché provoca una malattia mortale, il favismo, molto diffusa all’epoca nella zona di Crotone, dove viveva Pitagora.

Ma il rifiuto delle fave è cosa diffusa nel mondo classico.

Una leggenda arcade narra che le fave –kúamoi in greco- furono gli unici legumi che Demetra non donò ai Fenati quando giunse nella loro città. (Pausania, Guida della Grecia, VIII, 15). La dea le aveva escluse anche dalla sua sfera sacrale proibendone l’uso ai sacerdoti di Eleusi, come a tutti coloro che partecipavano ai suoi riti. Il motivo di questo divieto, che si ritrova anche fra orfici e pitagorici, era un “sacro segreto” come riferiva lo stesso Pausania. Ma forse la fava era esclusa dai culti oracolari greci, perché si diceva che ottundesse la mente.  Un’epigrafe cultuale del V secolo a. C. , proveniente da un ignoto santuario di Rodi, ordinava ai partecipanti di astenersi “dagli afrodisiaci, dalle fave, dai cuori [degli animali]” affinché si conservassero in uno stato di purezza totale.

Secondo una credenza tramandata da Porfidio, le fave potevano essere veicolo delle anime dei morti, capaci di prendere possesso di un essere umano. (Porfirio, Sull’astinenza delle carni, IV, 19). Ciò spiega la loro presenza nei riti funebri, non soltanto in Grecia, ma anche in Egitto, a Roma, in India e in Perù.

Si sosteneva che causassero ottundimento fisico e psichico: “Vuole dunque Platone” scrive Cicerone “che ci si addormenti con il corpo in condizione di non recare all’anima errore e turbamento. Anche per questo motivo si ritiene che sia stato proibito ai pitagorici di nutrirsi di fave perché questo cibo procura un forte gonfiore, nocivo alla tranquillità spirituale di chi cerca la verità” (Cicerone, De divinatione 1,62).

E Plinio: “la fava si mangia per lo più bollita, ma si ritiene che intorpidisca i sensi e provochi visioni” (Caio Plinio Secondo, Naturalis historia, XVIII, 118).

Pausania riferisce che ai suoi tempi esisteva ancora un tempietto dedicato ad un eroe il cui nome, Kyamítes, aveva la stessa radice greca della fava: “Lungo la strada si erge un tempio non grande intitolato a Kyamítes. Non so dire con certezza se questo sia stato il primo a seminare fave o se hanno denominato così qualche eroe, perché non si può attribuire a Demetra la scoperta delle fave. Chi ha già assistito ai misteri di Eleusi o ha letto i testi orfici, sa ciò che dico”. Dalle parole sibilline di Pausania si può soltanto capire che, con l’avvento del culto di Demetra, con i cereali a lei consacrati, la fava era stata posta in subordine, ridotta ad una pianta legata al mondo infero.

Quale fosse il mito di Kyamítes non sappiamo, ma qualcosa si può intuire leggendo Plinio: “Secondo Varrone il flamine non se ne nutre per questo motivo [il fatto che intorpidisca i sensi e provochi visioni] e inoltre perché sul suo fiore si trovano lettere luttuose”. Quelle lettere (macchie di colore nero che si trovano solo sui fiori delle fave) esprimerebbero, al pari di quelle del giacinto, il lamento dell’eroe morente.

Era anche il nutrimento preferito dai morti, tant’è vero che si usava gettare nelle tombe delle fave che, grazie alla loro componente sanguigna, davano loro energia negli inferi e si mangiavano nel silicernium, il pasto funebre raffigurato in molti mosaici pavimentali.

Come si vede, per chi è tanto legato alla tradizione e gli piace camminare con la testa rivolta all’indietro, piuttosto che guardando avanti, non manca la materia per sbizzarrirsi.

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